Vita Chiesa
Pomaio, nella pieve diroccata è sbocciato il paradiso
Arezzo è vicina eppure sembra lontana, laggiù. Un cartello dice: «silenzio». Più che un richiamo è una constatazione, un invito ad ascoltare questa musica di foglie fruscianti e cinguettare di uccelli. Una delle sorelle della Fraternità mi viene incontro, sorridendo: «È vero, ce lo dicono in tanti che questo è un paradiso. La cura dell’ambiente per noi è importante, anche se è faticosa. Lavorare la terra insegna che le cose belle vanno conquistate: è una fatica che stanca ma non svuota, non è come il lavoro in città da cui a volte si torna sfibrati, spenti».
La Fraternità di Pomaio, mi spiega, nasce dall’intuizione di un prete, don Sergio Carapelli, che a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, in piena contestazione giovanile, lavorando come insegnante in un liceo classico riunì intorno a sé un gruppo di «ragazzi di nessuno», slegati da qualsiasi appartenenza politica, culturale, anche religiosa: «Avevamo solo voglia di parlare, di confrontarci. È l’età in cui ci si pongono tante domande. La matrice intorno a cui ruotavano i nostri incontri era il Vangelo che ci veniva offerto con molta discrezione ma anche con forza, come una proposta di vita».
Crescendo, tra i ragazzi maturano scelte diverse: il lavoro, l’università, le coppie che si formano. Resta comune il desiderio di una crescita nella fede, personale e comunitaria, che per qualcuno diventa desiderio di consacrarsi a Dio. «La molla che ci spingeva, e ancora ci spinge, è la certezza che il Vangelo è la risposta gioiosa alle nostre domande: una risposta che dobbiamo annunciare con gioia. Avevamo alle spalle il vento del Concilio, ci siamo confrontati con tante esperienze che stavano nascendo in quegli anni: Bose, Sant’Egidio, le comunità fondate da Dossetti. Il monaco camaldolese Benedetto Calati era per tutte queste realtà, e anche per noi, un punto di riferimento prodigo di consigli e indicazioni».
L’arrivo a Pomaio risale al 1974: la pieve faceva parte della parrocchia di don Sergio, ma dopo la costruzione della chiesa nuova, più a valle, non era più usata. La chiesetta, danneggiata dalla guerra, era diroccata, le case intorno cadevano a pezzi, i rovi e le spine soffocavano tutto. I ragazzi, insieme a don Sergio, lavorano duro: pian piano questo borghetto di case rinasce. Nel 1982, tre ragazze decidono di restare a vivere quassù: «Volevamo vivere la nostra consacrazione qui, dove il Signore ci aveva chiamate, in comunione con la Chiesa locale. Trovammo appoggio nel vescovo Telesforo Cioli e nel monastero di Camaldoli, che ci permise di innestare il nostro piccolo ramoscello sull’albero del monachesimo tradizionale. Abbiamo fatto la scelta di continuare a lavorare, per motivi pratici ma anche perché questo rispondeva a ciò che cercavamo: essere contemplativi nel mondo». L’ora et labora di San Benedetto quindi si rinnova alla luce di nuovi insegnamenti, quelli di Teresa del Bambin Gesù, di Charles De Foucauld.
Nella vecchia casa del contadino nasce un monastero, con tanto di clausura; nella stalla, la cappella che è il cuore della fraternità; nella porcilaia, una biblioteca. Nel 2001, il vescovo Gualtiero Bassetti ha approvato definitivamente la Regola. Oggi la comunità è fatta di cerchi concentrici: alla Fraternità vera e propria, che comprende due sorelle e un’aspirante, si aggiunge la Comunità di San Lorenzo, che riunisce laici e famiglie. Poi c’è «Camminare insieme», un cerchio ancora più ampio di persone che frequentano Pomaio e condividono l’impegno ad annunciare il Vangelo nella gioia. Una volta al mese, un centinaio di persone si riunisce per gli incontri biblici; vengono organizzati anche ritiri e iniziative culturali. Viene offerta ospitalità a persone in ricerca, che vogliono condividere la vita della comunità: la sveglia alle 5,30, le lodi, la lettura silenziosa della Bibbia, il lavoro, i pasti frugali, alle 21 la compieta. Un locale distaccato, poco lontano dalla pieve, viene dato in autogestione a piccoli gruppi. Per informazioni, il telefono è 0575.371451. Si possono acquistare icone, marmellate, candele, biglietti d’auguri. «La nostra è una comunità piccola, cresciuta nel silenzio, senza clamori. Abbiamo fatto anche l’esperienza dell’aridità, del dubbio. Siamo andati avanti tenendo sempre accesa la candela della preghiera, e continueremo finché il Signore vorrà».