Cultura & Società
Politica, nei secoli un crescendo di lamenti e invettive
È inutile girarci intorno perché ormai tutti lo vedono: la politica con le persone che la rappresentano non erano mai state in tanto discredito si può dire a memoria d’uomo. Le scuse sono tante: il male necessario, la disonestà dalla quale nessuna istituzione fu mai esente, il costo della democrazia, la mancanza di preparazione e altre storie, compresa quella che un tempo era lo stesso, ma oggi la trasparenza maggiore rivela quello che una volta poteva rimanere occulto. Sarà, ma è un fatto che è venuta meno anche le vergogna e si fa sfacciatamente alla luce del sole quello che in passato almeno si cercava di nascondere.
Si dà la colpa anche ai sistemi, ma il problema sono le persone. Aristotele, forse la mente più lucida dell’Occidente, non volle dare, come altri filosofi, il sistema politico giudicato migliore in assoluto, ma si limitò a descrivere l’affanno secolare e mai concluso dei vari sistemi che si succedono nel tempo: monarchia, oligarchia e quella che oggi si dice democrazia, con le rispettive inevitabili degenerazioni, indicando che il governo dei popoli non ha mai una stabilità definitiva, ma una crisi congenita.
I detti, i proverbi, le tradizioni non ci consolano: non si trova in nessun modo un tempo in cui un popolo sia stato governato, o si governasse saggiamente, onestamente, con giustizia, tranne i tempi leggendari come l’età dell’oro, il regno di Saturno, di Salomone. Per il resto si parla di ribaldi e lestofanti.
L’unica cosa che ci è parsa costituire una differenza è il fatto che sia nel ladruncolo che nel sovrano malvagio, falso, oppressore d’un tempo rimaneva un barlume di coscienza di errare facendo il male. Oggi questa consapevolezza pare scomparsa, o si è molto attenuata: anche quando uno viene colto con le mani nel sacco, con la faccia nera di cioccolata, in mutande a timbrare il cartellino, c’è sempre una scusa, un attenuante, un non sapevo, un mi pareva. Un motivo di superiore moralità, una tacita compensazione che esenta ognuno dal riconoscere d’aver sbagliato. Si trova sempre un Tar del Lazio che finalmente dichiara qualcosa da contrabbandare come innocenza.
In passato forse si era meno propensi a cancellare i confini tra bene e male: prima c’era la responsabilità individuale e poi le attenuanti. Oggi le istituzioni si prendono la colpa al posto dell’interessato: società, famiglia, educazione, scuola, necessità, infanzia infelice e una folla di mallevadori che gli avvocati scovano in continuazione. Tanti, meno il diavolo, che prima era il maggiore responsabile, mentre oggi forse si dedica ad altro.
Per il resto le cose sono andate sempre male nelle alte sfere, e col tempo il marciume è sceso anche a valle.
L’antica corte. Il crogiuolo del male, della malvagità, dell’invidia, dell’ipocrisia, della meschinità, e i peggiori vizi, viene indicato dai proverbi nella corte, sede millenaria del potere. A questa si uniscono le amministrazioni, le curie e i palazzi dei vari potentati, dove le cose avvengono secondo le stesse procedure.
Una quantità sorprendente di detti si riferiscono, nelle varie lingue e tradizioni, alla corte e al re, e non fanno onore né all’uno né all’altra. I tempi nuovi hanno cambiato le forme, ma i detti mantengono la loro validità e le due parole rimangono icone della vita politica: basta sostituirle col termine potere e tutto torna anche per la nostra epoca.
Un detto ricorda l’episodio di Pietro che nell’atrio della reggia rinnega Cristo per tre volte: Quando Pietro andò a corte rinnegò il Signore. In realtà gli bastò metterci appena i piedi, dato che vi capitò senza essere spinto da alcuna ambizione: il meccanismo è talmente perverso che bastò la presenza per venirne inquinato. Del resto la corte di Erode nelle vicende della nascita di Gesù, dei Magi, della Strage degl’Innocenti, della Passione, è il luogo d’elezione del potere e della sua depravazione, con violenze, adulteri, vizio, invidie e complotti.
La corte è un sobborgo dell’inferno.
Vita di corte è nobile schiavitù e splendida miseria.
La corte è un corteo di traditori, invidiosi, avari e buffoni.
Il lupo di corte bela meglio dell’agnello del prato.
A corte piace più l’asino che l’usignolo.
A corte va più sicuro chi cammina sui ginocchi.
A corte si dà un orpello per un vitello.
Nella corte entra cieco, resta sordo ed esci muto se vuoi restare vivo.
Con un basto d’oro entrano a corte anche i muli.
Dama di corte, donna di danari.
Paggio di corte, brache di ferro.
Chi entra a corte difficilmente invecchia.
Chi vive a corte muore sulla paglia.
L’occhiuto signore di questo palazzo è il sovrano che non si sporca personalmente le mani in delitti e soprusi, ma è il gancio che sostiene tutta questa malvagia impresa e Shakespeare non pare dire molto di nuovo rispetto all’analisi fatta dagli adagi.
Il re è come il gallo che canta in cima al mucchio di letame.
Quando il re starnuta a corte tutti hanno il raffreddore.
Chi non simula non regna.
I popoli si scannano e i re s’abbracciano.
Davanti al re si tace o si dice quel che gli piace.
Ringraziamo Iddio di quello che ci dona e il re di quel che ci lascia.
Il re o ti munge o ti spolpa.
I re mettono i somari a cavallo.
Il mondo della politica non ha mai goduto grandi simpatie da parte di quanti fruiscono della sua opera, anzi, più si scende verso la base sociale, più ci si avvicina ai livelli minimi della piramide sociale, in cui minori sono disponibilità, mezzi, cultura, più la diffidenza aumenta fino ad arrivare al disprezzo. I nostri tempi vedono una situazione stabile su uno sdegnoso rifiuto verso il potere che si percepisce non solo dalle parole, ma dal fatto inequivocabile che l’elettorato diserta il voto in misura sempre maggiore.
I tempi più recenti. Situazioni storiche come la secolare occupazione straniera, hanno prodotto in Italia questo fenomeno ma il giudizio negativo sul palazzo del potere e coloro che vi abitano, è antico, radicato e stabile. Lo dicono le storielle popolari, le disturne, gli stornelli, il teatro da fiera, i cantastorie, e la storia stessa.
Sono divenuti gli stessi cittadini i tiranni dei cittadini: rubano, sperperano, mandano in malora i servizi facendo il proprio interesse e sono tormentati a loro volta dalla disonestà generale.
I proverbi mostrano sfiducia unita a fatalismo: Al mondo ci saranno sempre i poveri e i ricchi, Corpo pieno non crede a digiuno, Cambiano i sonatori, ma la musica rimane sempre quella, Povero volle dir sempre coglione.
È una vecchia filosofia, legata particolarmente al mondo rurale che era vessato dalla continua tassazione da parte dei vari potentati. Così si esprime anche una composizione più vicina a noi.
Questi versi possono derivare da qualche disturna, qualche sfida per le rime e vi traspare un certo mestiere, una cultura che ha conosciuto bene il presente e prosegue la tradizione.
Specialmente oggi, che certi fenomeni di corruzione e di disonestà ci rendono poco amabili gli anni presenti, inevitabilmente si cerca rifugio in qualche tempo o paese di sogno.
Dopo un lungo dominio straniero, un riscatto nazionale avvenuto con forti limiti e notevoli disillusioni ha portato una dittatura e due guerre mondiali senza una vera e propria unità. La democrazia ha trovato una società piena di problemi, a cominciare dal sottosviluppo, l’analfabetismo fino all’integrazione tra Nord e Sud, con un’immatura esperienza di vita nazionale. Ora la politica si sta sfilacciando: sempre più la gente si trova d’accordo su giudizi sbrigativi che vengono tacciati di populismo, qualunquismo, autoritarismo, ma non si muove una foglia per cambiare lo stato indecente delle cose. E la storia purtroppo si ripete accentuando l’individualismo. Guadagnoli ha messo in giro questo detto in una sua famosa ottava: Il secolo umanitario, (op. cit., 1842), XI, v. 65-66, pag. 371):
I versi sono ancora una formula per sintetizzare il programma di una società divisa, dove ognuno prende per se quanto più gli è possibile, lasciando fare altrettanto agli altri. Purtroppo si riferisce spesso allo stato, ai comuni, alle organizzazioni, agli enti che amministrano.
Mentre l’uomo del passato aveva zone franche dove non era bersagliato dalle tasse, il progresso ha portato il controllo su qualunque aspetto della vita privata e di conseguenza una tassazione capillare e asfissiante. Questa quartina è attribuita a Giggi Zanazzo, poeta popolare romanesco.
Si potrebbe pensare che i testi presentati siano stati scelti oculatamente per presentare una certa visione, per cui con altri testi si potrebbe stilare un’argomentazione contraria. Anche a noi è venuto il sospetto ma, come per altri temi, cercando testi che dicessero il contrario e fossero dello stesso genere, attestati nel tempo, radicati nelle memorie, diffusi largamente, non li abbiamo trovati, e sì che ne abbiamo maneggiata di questa materia per lunghi decenni. Non esiste il pensiero opposto, neanche un dissenso, e qui diamo solo un’esemplificazione.
Illusioni, ironia e fraintendimenti nel parlare quotidiano. Quello che oggi si liquida con una comoda etichetta di qualunquismo ha ben altra complessità e radici molto più profonde d’un generico atteggiamento di disprezzo e indifferenza verso la vita politica. Si ripete ancora:
Significa indifferenza verso qualunque governo, potere, autorità, dato che le cose non cambiano comunque. Si può usare anche nel proprio ed esclusivo interesse.
Ci sono poi altre numerose espressioni che chiosano questo atteggiamento: Chi mi dà il pane lo chiamo babbo. Sto coi frati, zappo l’orto / e mangio il cavolo quando è cotto. Carnevale o Quaresima / per me è sempre la medesima. Chi è cuculo su ogni quercia canta.
Con la democrazia, il sospirato approdo a una società rinnovata e moderna, cominciarono i fraintendimenti, rivelati da questo da slogan ironico, ma rivelatore, che fa capire come sia difficile combinare libertà, autogoverno e uguaglianza:
Siamo in democrazia: o tutti primi, o tutti secondi, o tutti terzi.
Proprio l’uguaglianza è uno dei bersagli dell’ironia più frequente come appare nelle memorabili parole d’un sindaco che parlava ad un comizio nel secondo dopoguerra:
– Cittadini, non guardate se il vostro sindaco va in automobile: purtroppo è una necessità pratica. Il suo cuore infatti va sempre a piedi, insieme a voi.
Celebre è rimasto l’inizio d’un comizio dei tempi dei tempi.
L’oratore, che viene di fuori, comincia: