Italia
Politica, dieci anni fa la rielezione di Napolitano. Sembrava un’eccezione e invece poi toccò anche a Mattarella
Il vecchio leader migliorista del Pci richiamato dalla preghiera di quasi tutti i leader, che non sanno a quale santo votarsi, li prende per un orecchio e li strattona: «Non mi sono sottratto a questa prova, ma sapendo che quanto accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una serie di omissioni, di guasti e di irresponsabilità». Napolitano si è trovato di fronte a un drammatico allarme «per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento nell’inconcludenza e nell’impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale di eleggere il capo dello Stato». Definisce i partiti, quindi i parlamentari che ha davanti, «sordi e sterili». Eppure lo applaudono. Quegli stessi rappresentanti del popolo che sta prendendo a ceffoni, applaudono il loro fustigatore come se niente fosse. Il presidente li accusa di inerzia e incapacità, e loro gli battono le mani, come se la responsabilità di quanto sta accadendo fosse di altri.
Una scena kafkiana che dette la misura, allora, della scarsa qualità della classe politica espressa dal nostro Paese, che infatti nove anni dopo si ritroverà nelle stesse condizioni con il forzato bis di Sergio Mattarella. E ancora orfano di quelle riforme che Napolitano aveva posto come condizione per accettare il reincarico e così togliere dalle peste l’universo politico italiano.
Ricordare oggi gli esempi di Napolitano e poi quello di Mattarella, dovrebbe essere da monito per i leader che frequentano la scena nazionale, fragili e autoreferenziali, più volte puniti dalla diserzione degli elettori alle urne, eppure ostinati nei comportamenti che continuano a minare la loro credibilità. Quello che sta succedendo fra un ex presidente del Consiglio e un ex ministro della Repubblica, fra Matteo Renzi e Carlo Calenda, – tanto per restare all’attualità degli ultimi giorni – riflette la crisi della politica, che non sa parlare ai cittadini, anzi, li allontana pericolosamente.
E il distacco del Paese reale svuota la classe dirigente di qualità: se diminuisce la partecipazione degli elettori alla vita democratica, si restringe anche il campo degli eleggibili e si abbassa il livello del nostro Parlamento.
In fondo anche la stessa difficoltà, dieci anni fa, di trovare un successore a Napolitano dipese dalla mancanza di personaggi all’altezza. Il famoso tentativo di ricorrere a una delle cosiddette «riserve della repubblica», cioè a Romano Prodi, naufragò miseramente nella bocciatura del 101 anonimi parlamentari all’interno della maggioranza di centrosinistra che gli negarono l’elezione. Ancora oggi si ignora l’identità di quei franchi tiratori, e ogni tanto spunta qualche confessione postuma. Così come nel gennaio dell’anno scorso, l’accordo già raggiunto per portare al Quirinale Pier Ferdinando Casini, venne impallinato dalla Lega di Salvini, prima che si ripetesse la solita liturgia del 2013, questa volta con Sergio Mattarella.
Lo stesso dibattito che regolarmente si apre sul secondo mandato del presidente, rilancia la necessità delle riforme istituzionali mai fatte. Nella nostra Costituzione non ci sono vincoli precisi, è stata tuttavia prassi consolidata fino al Napolitano bis che i presidenti debbano rimanere in carica solo sette anni. Alcuni storici spiegano questa scelta convenzionale dei partiti costituzionali con l’intenzione di sventare il rischio che si potesse ripetere il fresco esempio del presidente Usa Franklin Delano Roosevelt, eletto per quattro volte alla Casa Bianca, dal 1933 fino alla sua morte nel 1945. Poi, anche negli Stati Uniti, il XXII emendamento alla Costituzione, approvato nel 1951, vieterà a chiunque di poter diventare presidente per più di due mandati.
La rielezione di Napolitano era comunque talmente legata all’urgenza delle riforme, che nel discorso di insediamento il presidente pose le condizioni che il suo mandato fosse a termine, cioè nell’attesa che le forze politiche si decidessero a mettere da parte le divisioni e rinnovassero finalmente gli organi istituzionali. Per facilitare le procedure, poco prima della sua scadenza, il capo dello Stato istituì un comitato trasversale di dieci saggi – da Violante a Onida, da Giorgetti a Quagliarello – che individuasse le convergenze possibili e contribuisse a superare gli ostacoli che avevano impedito fin lì un’intesa più ampia possibile. Doveva insomma essere un documento base del programma per la formazione del nuovo governo che, grazie alla strategia interventista e di supplenza di Napolitano – come ha scritto in un saggio Valdo Spini – avrebbe dovuto portare finalmente a una svolta. Le conclusioni del comitato si persero invece nelle nebbie dei veti posti all’interno dell’esecutivo presieduto da Enrico Letta.
Il tentativo che seguì, nel 2014, fu quello di Matteo Renzi, con il ministro Maria Elena Boschi, che prevedeva il superamento del bicameralismo ma anche un complesso di riforme costituzionali, collegate a una nuova legge elettorale della Camera. Poteva essere l’avvio del sospirato e travagliato cambiamento, tant’è che l’ottantanovenne Giorgio Napolitano, come annunciato, si dimise nel gennaio del 2015, al termine del semestre di presidenza italiano dell’Unione europea e appena all’inizio del cammino del processo di revisione della Costituzione. Che fu approvato dal Parlamento il 12 aprile 2016. Ma definitivamente affondato da un referendum popolare il 4 dicembre. Oggi siamo ancora fermi a quel punto. E bisognerà sbrigarsi a stabilire nella Costituzione, proprio se il presidente della Repubblica potrà essere eletto solo una o più volte.