Vita Chiesa
Pio XII, la pace sempre e prima di tutto
DI ROMANELLO CANTINI
Mezzo secolo dopo la sua morte è ancora difficile consegnare la figura di Pio XII alla storia con un giudizio che sia unanimemente condiviso soprattutto per il suo atteggiamento nei confronti dell’Olocausto che alimenta una discussione che sembra destinata ad essere infinita, nonostante la pubblicazione dei documenti, l’accumularsi delle testimonianze, la produzione innumerevole di opere. Nel caso di Pio XII che rappresenta uno snodo cruciale nella storia non solo religiosa del Novecento, la posta in gioco che produce lo schieramento pregiudiziale dal punto di vista ideologico è altissima. Diminuirne la sua figura fra l’altro significa screditare un uomo che diede un contributo decisivo seppure indiretto alla sconfitta del comunismo e non solo in Italia. Rimettere in discussione il suo ruolo significa giocare intorno al problema scottante della continuità o della discontinuità della Chiesa preconciliare rispetto al Concilio e in qualche modo ridurre o aumentarne il suo ruolo rivoluzionario.
Il danno dell’insistere su questo aspetto del papa politico è tra l’altro quello di far dimenticare la grande importanza del papa religioso e delle sue stesse qualità personali.
Comunque su questo problema la documentazione, che nel frattempo si è aggiunta, ha messo in luce un papa che si era già posto tutte le obiezioni che gli sarebbero state rivolte dopo la sua morte e le aveva risolte in una scelta di coscienza sofferta ma libera, in direzione di quello che riteneva se non il bene comune almeno il male minore in un periodo tragico e desolato in cui si trovava la Chiesa. Del suo presunto «silenzio» nei confronti del nazismo ne discusse addirittura con il futuro papa cardinale Roncalli prevedendo tutte le accuse a cui avrebbe prestato il fianco, ma ritenendo più produttivo l’atteggiamento che aveva scelto.
Quanto ad altre accuse, per cui nell’immediato dopoguerra il papa fu considerato filotedesco, oggi devono essere considerate quali grandi premonizioni. La condanna delle condizioni fatte dalla pace di Versailles alla Germania è oggi universalmente condivisa.
Nel tentativo di lasciarsi la strada aperta al dialogo non solo per sé, ma anche per quello che riteneva, certamente in forma utopistica, un dialogo ancora possibile fra i belligeranti, il papa doveva del resto accorgersi che nell’inasprirsi del conflitto anche le sue prese di posizione più coraggiose erano sfruttate propagandisticamente e i suoi stessi interventi scontentavano quasi sempre gli uni e gli altri.
Nei confronti della persecuzione degli ebrei il papa ritenne che per quanto riguardava la condanna del razzismo non poteva dire di più di quello che aveva detto in termini generali nella «Summi Pontificatus» e nei messaggi natalizi del 1940, del 1941 e del 1942. In quest’ultimo aveva denunciato le «centinaia di migliaia di persone le quali senza veruna colpa, talora solo per ragioni di nazionalità e di stirpe, sono destinate a morte o ad un progressivo deperimento».
Riteneva che con condanne più esplicite non si doveva temere per lui che non temeva conseguenze personali ma per la sorte anche fisica dei cattolici che erano sotto l’occupazione nazista soprattutto per gli ebrei stessi che potevano essere perseguitati con ancora più accanimento e non avrebbero potuto contare sull’aiuto umanitario di una Chiesa meno libera. In sostanza Pio XII in buona fede rinunciò alla profezia in nome del realismo.
Il dibattito infinito su papa Pacelli durante la guerra ha contributo a lasciare in ombra l’enorme opera di guida dottrinale e spirituale di Pio XII durante i diciannove anni del suo pontificato: Pio XII ha scritto 23 encicliche, 16 lettere apostoliche e pronunciato quasi 1500 discorsi. Spetta a lui il ruolo di conservatore e di innovatore del deposito della fede della Chiesa nel Novecento. In fondo se il Concilio ha lasciato piuttosto ai margini il problema del patrimonio dottrinale della Chiesa, ciò è dovuto soprattutto al fatto che il grande lavoro di ricognizione e di aggiornamento su questo piano era già stato fatto dal predecessore di papa Roncalli.
Né è da credere che in un periodo in cui la fede e la morale cattolica dovevano misurarsi con un progresso sempre più frenetico delle scienze e dei costumi, gli interventi di Pio XII siano stati solo di appello alle verità di sempre. Nella enciclica «Divino afflante spirito» (1943) diede un contributo importante ad una nuova esegesi biblica. Nella «Operator Dei» (1947) pur ribadendo l’uso del latino nella liturgia aprì anche alle lingue nazionali oltre che alla musica moderna pur attraverso l’autorizzazione della santa sede. Nello stesso anno operò la prima grande internazionalizzazione del collegio cardinalizio nominando 22 nuovi cardinali di cui solo 4 erano italiani e 11 già extraeuropei.
Nella «Humani Generis» operò la prima apertura in direzione del darwinismo affermando che il corpo, anche se non l’anima, può essere il risultato della evoluzione. Nel famoso discorso alle ostetriche dell’ottobre 1951 aprì un varco nella proibizione assoluta della contraccezione autorizzando i metodi naturali nel controllo delle nascite.
Nel 1955, in risposta ad una richiesta del rabbino di Roma, chiarì che la famigerata espressione «pro perfidis judeis» della liturgia del Venerdì Santo andava intesa come «per gli ebrei che non hanno la nostra fede» secondo il significato originario latino di «perfidus».
Pio XII si impegnò in una serie innumerevole di discorsi alle varie categorie dei lavoratori, cercò di fondare una teologia del laicato confacente ad una società sempre più complessa.
Pio XII intervenne decisamente in campo politico e sociale. Nel radiomessaggio del settembre 1947 pronunciò una dura condanna delle distorsioni del sistema capitalistico e si augurò una società dell’eguaglianza. La fondazione delle Acli sarà un’idea nata esclusivamente nella testa del papa.
Il messaggio natalizio del 1943 è passato alla storia come quello che ha per così dire battezzato la democrazia definita «un sistema di valori in perfetta consonanza con lo spirito del vangelo». In questa democrazia Pio XII si propose soprattutto di vincere il comunismo. Dichiarò alla vigilia delle elezioni del 1946 il voto «sacro dovere». Nello stesso anno si pronunciò per l’unità politica dei cattolici. Per elezioni del 1948 incoraggiò Luigi Gedda a organizzare quei Comitati Civici che, a detta di molti, furono decisivi nella vittoria democristiana del 1948. L’anno dopo la maggioranza dei vescovi dell’Europa dell’Est è in prigione, il 1° luglio arriva la scomunica per chi professa la ideologia comunista anche se l’Osservatore romano del 27 luglio chiarisce che non sono passibili di scomunica coloro che semplicemente votano comunista o sostengono il partito comunista senza per questo «aderire alla dottrina materialistica e anticristiana del comunismo».
Nel 1951 il papa, terrorizzato per un possibile successo dei comunisti al comune di Roma, entra in conflitto con De Gasperi chiedendo che l’alleanza anticomunista si estenda anche ai monarchici e ai missini con una lista unica. De Gasperi ha ragione da vendere nel ricordare al papa lo spirito antifascista della Costituzione e la frattura che una simile alleanza avrebbe provocato con il partito repubblicano e socialdemocratico che sostenevano il governo. Eppure qualcuno ha voluto trovare perfino in questa posizione di papa Pacelli una sorta di intuizione di quel bipolarismo che oggi è considerato vangelo con la condanna all’inferno di ogni ipotesi centrista tipo quella rappresentata allora da De Gasperi.
Tuttavia questa battaglia condotta nei confronti del comunismo non rimaneva fine a se stessa. Essa entrava a far parte di quel grandioso progetto della riconquista della società che fu chiamata allora la «crociata per il grande ritorno» e che aveva l’ambizione di ricostruire una sorta di egemonia a partire dai centri di produzione della cultura cioè dai partiti, dai sindacati, dai giornali, dalla radio, dal cinema, dalla editoria, dalla scuola per finire all’università. Ma al di là della aneddotica fatta anche di attivismo organizzativo e di proselitismo acceso rimaneva il fatto che il papa era uscito ingigantito per il suo pacifismo di principio semplicemente perché la guerra era stata terribile e in Italia era rimasto l’unica autorità presente a Roma anche a costo di insanguinare la sua veste quando lo Stato si era disfatto e perfino il re era fuggito. Fu soprattutto la consapevolezza della propria forza in un momento eccezionale a nutrire le sue grandi ambizioni di riconquista. Il risultato fu parziale ma la forza organizzativa e ispiratrice della Chiesa e del mondo cattolico, come risulta da un’inchiesta compiuta all’indomani della sua morte, risulta impressionante.