Toscana
Pillola abortiva: né facile, né sicura
di Andrea Bernardini
L’aborto medico è meno sicuro di quello chirurgico: produce più effetti collaterali, e in qualche caso può anche condurre a morte. L’interruzione di gravidanza indotta con i farmaci attualmente disponibili non sempre è efficace e circa una donna su dieci, dopo aver assunto i farmaci abortivi, deve far ricorso al chirurgo per completare l’espulsione del feto, subendo dunque un doppio intervento ed esponendosi ad ulteriori rischi ed effetti collaterali. I medici hanno difficoltà a monitorare la paziente perché per l’espulsione del feto possono servire giorni e giorni Un documento elaborato dagli esperti di Promed Galileo, società medico scientifica a cui fanno riferimento medici specialisti di diverse discipline in tutta Italia invita alla prudenza sulla pillola abortiva.
Il rapporto della Promed, cui ha aderito anche la European Medical Association, associazione medica fondata nel 1990 da medici di 12 nazioni europee, è stato presentato giovedì scorso alla Camera dei deputati. La sua diffusione arriva alla vigilia della decisione dell’Agenzia italiana del farmaco, chiamata ad autorizzare (o a negare) la commercializzazione della Ru486 anche in Italia: fino ad oggi, infatti, la pillola abortiva è arrivata in alcuni ospedali solo su richiesta ad personam del direttore sanitario e direttamente dalla ditta produttrice, la francese Exelgyn.
Il dottor Luca Puccetti, 50 anni, pisano, è presidente di Promed Galileo. Lo abbiamo intervistato.
Come avviene l’interruzione di gravidanza con il metodo farmacologico?
«Nei paesi in cui si è sperimentato l’aborto farmacologico, sono stati adottati diversi protocolli. In tutti i casi, comunque, la donna assume per via orale un dosaggio variabile di mifepristone e, dopo 48 ore, il secondo farmaco, in genere il misoprostol, somministrato per via orale, vaginale, o sublinguale. L’azione complessiva dei due farmaci determina l’aborto».
È un metodo più o meno sicuro di quello chirurgico?
«Nella nostra ricerca abbiamo individuato un solo studio che esamina la mortalità delle due tecniche in modo comparativo a parità di età gestazionale. Si tratta dello studio del professor Greene (Usa) pubblicato nel dicembre 2005 sull’autorevolissimo New England Journal of Medicine
Nel documento si parla anche di donne la cui morte è collegabile all’assunzione della pillola abortiva
«I decessi hanno seguito vari percorsi eziopatogenetici, infettivi, emorragici, allergici. Le donne decedute erano giovani, sane, seguite dopo l’aborto a domicilio e la sintomatologia è insorta nelle sepsi mortali in modo assai subdolo, prima di evolvere fino all’exitus con notevole rapidità».
Il protocollo adottato fino ad oggi in Toscana prevede un ricovero ordinario di tre giorni. Sono sufficienti tre giorni per l’espulsione del feto?
«Non sempre: talora ne servono di più. Addirittura non c’è unanimità di giudizio sui criteri da adottare per definire la riuscita dell’aborto».
Secondo quello che riportano le aziende sanitarie, molte delle donne, una volta assunta la pillola abortiva, firmano il foglio di dimissioni volontarie dall’ospedale, salvo tornarvi successivamente per completare l’aborto con il misoprostol non c’è il pericolo che il feto venga espulso o che possano insorgere complicazioni senza che ci sia un medico a portata di mano?
«Circa il 5% delle donne espelle l’embrione prima del secondo farmaco. La letteratura medica riferisce anche di donne che hanno espulso l’embrione in auto nel viaggio di ritorno dall’ospedale e di altre che non sanno dire quando ciò sia avvenuto. Un dato preoccupante è che in molte casistiche mancano notizie in merito a quanto sia successo nelle donne che non si presentano alle visite di controllo. E non sono poche».
Se la pillola abortiva fosse liberamente disponibile anche in Italia, cosa cambierebbe?
«Molto dipenderebbe dal protocollo e dalle linee guida che si decidesse di implementare. Verosimilmente una cosa sarebbe un impiego della Ru486 limitato a casi selezionati, con adeguato consenso delle pazienti di tutti i possibili rischi della metodica, da restituire controfirmato dopo un idoneo periodo di riflessione, come peraltro già avviene per altri farmaci, e con una procedura interamente seguita in ambiente protetto ospedaliero; altra cosa sarebbe un impiego in cui ogni centro si regolasse come crede, le donne ricevessero le pillole in ospedale, ma poi andassero ad abortire dove vogliono, o dove capitasse, e di una percentuale rilevante si perdessero le tracce».
Cosa non la convince?
«La pillola RU486 modifica l’interruzione volontaria di gravidanza: non più l’esito di un intervento chirurgico, ma l’effetto di un farmaco. L’art. 2 del D.M. 11.02.1997 impone al medico che chiede di importare un farmaco non registrato in Italia, di documentare al Ministero della Salute che per il paziente non c’è altra terapia. Il dato giuridico è di stretta interpretazione: poiché l’aborto consumato con la Ru486 ha un’alternativa (l’intervento chirurgico), la pillola abortiva non dovrebbe essere importata».
In Francia l’introduzione della pillola abortiva ha favorito la ridefinizione della normativa sull’aborto. In Italia una eventuale diffusione dell’utilizzo della Ru486 è compatibile con la legge 194?
«Non esiste un diritto all’aborto: secondo la stessa relazione di maggioranza alla proposta divenuta legge 194/1978, vi è l’intento di ampliare la prevenzione dell’aborto, considerato come un male evitabile, e regolamentare, per circoscrivere l’entità e i danni, la piaga dell’aborto clandestino, facendo leva sull’intervento pubblico e sulla responsabilità della donna. Proprio a coloro che allora si convinsero di questa impostazione giuridica deve oggi risultare che la pillola abortiva aggira le regole di prevenzione della legge 194».
Si spieghi meglio
«L’esperienza recente registra come molte delle donne, una volta assunta la Ru486, firmano le dimissioni volontarie e lasciano la struttura ospedaliera, salvo poi eventualmente ritornarvi per l’assunzione delle prostaglandine. Tra il primo e il secondo ricovero la donna resta senza assistenza medica: una discrezionalità e una solitudine che è proprio quanto la legislazione attualmente vigente intende vietare».