Cultura & Società
Pietre sacre, statue e figure parlanti
di Carlo Lapucci
Si pensa che la pietra sia stata il primo elemento nel quale l’uomo pose il segno di qualcosa che andava oltre se stesso, riconobbe o volle significare una realtà che oltrepassa l’esperienza immediata e si solleva collegandosi a realtà da lui percepite, intuite, avvertite pur rimanendo sconosciute e indefinibili. Se le tracce che rimangono nelle società primitive raccontano il passaggio di un itinerario materiale e spirituale, la pietra che si eleva dal terreno fu il segno primordiale, nel quale gli uomini posero la memoria di un’esperienza comune. Naturalmente è poi la pietra di particolare conformazione naturale ad essere privilegiata come indice di una realtà straordinaria e quindi si può pensare che l’uomo abbia cominciato a imprimere alla pietra prescelta anche una forma atta a comunicare nella sua lettura immediata la natura del fatto che egli intendeva segnalare all’attenzione e richiamare nella memoria.
Probabilmente lo sprigionarsi di scintille dalle pietre battute insieme suggerì l’idea che nella pietra stessa si nascondesse una forza prodigiosa che poteva essere utilizzata mediante procedure, riti, operazioni. La suggestione e il fascino che esercitano certe grotte di cristalli di rocca, di quarzi, di stalattiti, i fulgori della luce riflessa dalle gioie, aggiungono stupore e allettamento a credere in forze segrete nascoste nelle pietre. Il mito di Deucalione e Pirra giunge a dire che l’umanità dopo il diluvio pagano rinacque dalle pietre, dalle ossa della Grande Madre.
Altri fenomeni come l’attrazione della calamita, o dell’ambra elettrizzata con lo strofinamento, sono stati oggetto di ammirazione e sono serviti di conferma dell’idea generale che riconosce alle varie pietre virtù diverse secondo i vari tipi, vale a dire secondo la loro natura; mentre la forma, il taglio (che rivela le strutture cristalline nascoste) conferisce alla pietra capacità specifiche o le aumenta.
Tanta è stata la forza suggestiva della pietra nel prestarsi come mediazione tra l’immanente e il trascendente, che ancora oggi mantiene il suo prestigio, velato in aspetti sotto i quali è irriconoscibile, ma evidente appena si solleva la polvere del tempo. Gli altari sono anche oggi di pietra e dello stesso materiale sono in genere le statue mentre moltissimi elementi biblici, della liturgia e della devozione sono collegati alla pietra: la pietra su cui dormì Giacobbe… Tu sei Pietro e su questa pietra… la pietra angolare… costruire sulla pietra… la pietra del sepolcro di Cristo. Così le vicende dei santi si collegano spesso alla pietra: il Sasso Spicco di San Francesco, le apparizioni della Vergine che avvengono di solito sopra o accanto a una pietra (la Madonna del Sasso), vicende con altri collegamenti diversi (il Sasso di San Zanobi, il Macigno di San Frediano). L’elemento più sacro della religione islamica è proprio una pietra, la Caaba che si trova nel santuario della Mecca.
La pietra dunque comincia il suo cammino nell’espressione del significato dell’umano come testimone di un fatto, non sempre collegato al divino, che una collettività intende ricordare per riconoscersi in questo. Quelle che gli archeologi chiamano le primitive pietre testimoni lo sono come memento della verità di una cosa avvenuta (un incontro, una vittoria, un eccidio, un miracolo) e possono essere testimoni, garanzie, segni della manifestazione di una presenza misteriosa, d’una rivelazione del trascendente, come insediamento della presenza del divino. Anche questo è rimasto ancora nel nostro mondo: quando si vuol lasciare memoria di un evento doloroso, spirituale, storico, glorioso, importante si pone ancora un cippo, una pietra, elemento che vediamo sempre più scelto dalla scultura moderna nei monumenti per la sua efficacia elementare ed espressività potenziale. Del resto anche la tomba rimane pietra o ne mantiene la capacità comunicativa con la lapide di marmo.
Con l’affinarsi della religiosità e soprattutto la nascita delle religioni monoteiste che tendono a sospingere il divino lontano e al di sopra della materia, nasce un dissidio tra la visione sempre più alta del mondo sacerdotale e quello popolare che tende sempre i più a incorporare il divino (trascendente) nel segno (la pietra) facendo di questo il ricettacolo di una realtà infinitamente superiore, che risulta alla fine avvilita al ruolo di anima magica d’un feticcio, oggetto di riti meschini, di sentimenti volgari, di atti che, senza elevare la pietra o la statua a livello di segno divino, abbassa il divino a ruolo di idolo.
Data la grande forza insita nella figura di pietra non meraviglia che le statue parlino e che sia nata su alcune di loro una materia leggendaria che attribuisce all’immagine un collegamento diretto con la divinità e da qui una capacità di conoscere i misteri, emettere responsi, predire il futuro, muoversi, apparire in luoghi lontani, fare miracoli.
Significativo è a questo proposito il mito del Palladio, collegato alla vicenda della città di Troia. Si trattava di una statua di Atena dell’altezza di circa tre cubiti, rappresentante la dea che portava nella mano destra un’asta e nella sinistra una conocchia ed un fuso. Secondo Apollodoro era anche un automa che parlava e si muoveva. Si diceva che fosse stata scolpita nelle ossa di Pelope e Zeus in persona l’aveva fatta cadere vicino alla tenda di Ilo mentre questi costruiva Troia, stabilendo che la città non sarebbe mai stata espugnata finché il Palladio restasse custodito nell’Acropoli, cosa che i troiani non mancarono di fare finché Ulisse e Diomede non lo rubarono, provocando la distruzione di Ilio. Il patrimonio leggendario aggiunge che i troiani fecero diverse copie del Palladio in modo tale che molti ritennero di possedere quello vero, a cominciare da Ulisse e Diomede, poi Enea che credé di portarlo nel Lazio, mentre uno era rimasto a Troia, per cui infinite città pensarono poi d’avere il prototipo e si ritennero per questo sicure.
Con ciò si rivela un altro aspetto della statua che è quello di custode e difesa di un gruppo, di una comunità e si capisce come molte statue, in particolare quelle dei santi protettori, siano tutt’oggi ritenute presidio e protezione venendo gelosamente custodite, sottintendendo anche un’altra idea magica, vale a dire che l’effigie di una persona mantiene un rapporto con questa e può conservarne le forze e le virtù.
Era un palladio anche la statua di Marte che custodivano i fiorentini (Inferno XIII, 146) e fu portata via dall’Arno seminando la discordia nella città, mentre a Milano in S. Ambrogio era custodita una statua di Ercole, di cui si diceva che l’impero sarebbe durato finché il simulacro sarebbe rimasto al suo posto; ma venne rimosso e l’impero cadde. Ne parla anche Fazio degli Uberti nel Dittamondo (III, IV, 4-6):
Nell’Accademia di Belle Arti di Carrara si trova il bassorilievo dei Fantiscritti: un’edicola in marmo del II secolo d. C., raffigurante Giove, Ercole e Bacco, come rappresentazione divina dell’Imperatore Settimio Severo e dei suoi figli Caracalla e Geta. L’edicola fu trovata scolpita sulle pareti rocciose del canale di Fantiscritti e trasportata al sicuro per conservarla, anche perché si dice che ogni figura d’imperatore si cancellerà alla sua morte e quando sarà sparito l’ultimo, finirà il mondo.
A Firenze di recente parlò a lungo la testa perduta della statua della Primavera del Ponte a Santa Trinita; parlano le tre statue di Dante: quella nella chiesa e quella nella piazza di S. Croce, mentre l’altra sotto il Loggiato degli Uffizi dialoga con Pier Capponi. Parlò per sua disgrazia il prete che s’affaccia ancora dal muro di Santa Maria Maggiore in via de’ Cerretani, che il mago Cecco d’Ascoli passando per andare al patibolo folgorò e impietrì
La Toscana è piena di queste immagini parlanti: un’altra impietrita, questa volta a sua gloria, si trova a Pisa in fondo a Via San Martino, nel muro d’un palazzo antichissimo: si vuole che sia Chinzica de’ Sismondi, l’eroica ragazza che nel 1005, dando l’allarme, salvò la città dal saccheggio dei saraceni di Musetto che di notte attaccavano Pisa dal Mare.
Pistoia ha addirittura il suo santo protettore, San Giacomo che in una leggenda parla dall’alto della facciata del Duomo e nella stessa piazza si trova la testa che si dice che sia di Musetto II di Maiorca, sconfitto dal pistoiese Grandone de’ Ghisilieri (1113) e anche quella di Filippo Tedici, che col tradimento consegnò Pistoia, sua città natale, a Castruccio Castracani (1325), avendone in cambio diecimila fiorini d’oro. La sua testa fu appesa sulla facciata del Palazzo comunale quindi fu fatta di marmo nero, che con una mazza di ferro e un mazzo di chiavi resta come monito per i traditori.
Nella chiesa di San Bartolomeo in Pantano si trova uno splendido pulpito nel quale si ammirano bellissime figure simboliche, una di queste è nuda e si vuole che sia il ritratto dello stesso scultore Guido da Como, che si ritrasse senza vesti per significare che non era stato pagato.
A Volterra nella chiesa di San Francesco, tra la tomba di Mario Bardini e la porta della cappella del Compianto si trova una piccola statua detta della Vergine Tuccia che, si dice, era una monachella semplice e indotta che, volendo diventare superiora, si presentò al vescovo portando l’acqua in un vaglio per mostrare il suo valore. Ma il monsignore, accortosi delle sue arti magiche, le disse: Tu così resta! E la Vergine Tuccia immediatamente diventò di marmo, col vaglio che ora fa da acquasantiera.
Sempre a Volterra c’è il Prete Marzio: una statua che un tempo stava nel Prato Marzio e ora si trova nel giardino del museo. Era la migliore compagnia del mondo: gli ubriachi ci parlavano, i ragazzi gli tiravano sassate, i venditori ambulanti ci appoggiavano la merce. Chi dice sia un sacerdote etrusco, altri che sia un monaco, chi giura che sia un santo o un avvocato romano. La leggenda narra che un giorno, mentre un confratello gli chiedeva qualcosa, il Prete Marzio disse:
Giuro di non sapere nulla di questa faccenda, restassi qui impietrito. E fu subito accontentato.
Nell’Oratorio di Sant’Antonio Abate, a Pescia, sono conservati «i Santi brutti», rarità artistica unica nel suo genere. In realtà si tratta d’un capolavoro del XII-XIII secolo, forse addirittura della mano dell’Antelami. Il gruppo ligneo un po’ corroso, di cinque persone, rappresenta la deposizione di Cristo dalla Croce. La gente non va nel dettaglio né nelle sfumature, guarda l’insieme e dice che sono i Santi brutti. Siccome il corpo del Signore pare che scenda quasi spontaneamente dalla croce e forse Giuseppe d’Arimatea lo aiuta con un piede su una scala, si sente dire anche che i cinque discendano dal Paradiso dove non li hanno voluti e rimarranno lì scambiandosi tra loro qualche frase.
Nel mondo antico era una credenza comune e Strabone, parlando dell’Elba (Geografia V, 2, 6), scrive: «Un altro particolare curioso di quest’isola è che le cave, da cui si è estratto il metallo, col tempo si riempiono di nuovo, come dicono avvenga anche a Rodi per le cave di pietra, a Paro per il marmo e in India per le saline, come racconta Clitarco». In realtà, la credenza pagana che i sassi fossero le ossa della terra (Ovidio, Metamorfosi, I, 348 e segg., l’episodio di Deucalione e Pirra), è stata tenace e nell’immagine popo-lare del mondo le pietre sono le ossa della Grande Madre che si rigenerano continuamente.