Firenze

Piccoli cinesi crescono

di Giovanni MomigliParroco di San DonninoIl lavoro minorile nella comunità cinese non è una novità. La novità sembra essere la sorpresa e lo stupore di molti. Senza scomodare l’esperienza quotidiana e vari interventi fino dalla prima metà degli anni novanta, basta un po’ di memoria.

Davanti alla telecamera di Giovanna Cossia e Marco De Paoli, che hanno curato il video «Dalla Cina alla Toscana» in collaborazione con la Commissione Pari Opportunità della Regione Toscana (presentato il 18 dicembre 97), Mimi, giovane cinese di Brozzi, candidamente confessa di aver cessato di andare a scuola, perché faceva fatica a studiare e lavorare: dormivo poche ore al giorno, afferma, perché la sera dopo le 22,30 dovevo fare i compiti, anche se solo i più importanti.

Beatrice Pucci, insegnate di progetto della scuola elementare Vamba di San Donnino, davanti alla solita telecamera, afferma che i genitori hanno l’interesse primario che i figli imparino l’italiano anche se molti ragazzi «lavorano nei magazzini… nel migliore dei casi nel pomeriggio» (va rilevato che diversi ragazzi hanno 12-14 anni, perché inseriti in relazione al loro arrivo). Stefania Somigli, preside della scuola media Verga di San Donnino, invece, con una terminologia più prudente afferma che per «molti di loro abbiamo il sospetto, fra virgolette, che lavorino, nel pomeriggio e spesso fino a tarda notte».

A queste testimonianze, si può aggiungere la ricerca da noi fatta e pubblicata dalla Regione Toscana nel 1999, nella quale i ragazzi delle scuole medie descrivono i loro orari quotidiani che, nella sostanza, sono quelli raccontati nel filmato di Lucignolo, la trasmissione di Italia 1 andata in onda nei giorni scorsi che sembra abbia dato origine ai recenti interventi delle forze dell’ordine.

Al di là di molti discorsi che in questi casi vengono fatti, quello che, a mio avviso, va comunque tenuto presente è il contesto nel quale tutto questo avviene. Ad esempio, non può essere ignorato il fatto che in qualche caso si è in presenza di una promiscuità lavoro-abitazione; così come non si può ignorare che molti bambini dopo la scuola non vanno a casa, bensì nel laboratorio dei genitori, perché lì si svolge la loro vita quotidiana. Il laboratorio è considerato il cuore e il centro della vita.

Sono anni che mi domando e domando: possono le normali sanzioni (per altro, fino ad oggi, largamente assenti), da sole, riuscire ad arginare un fenomeno come quello della presenza dei bambini nei laboratori? Indubbiamente la sanzione – quando applicata con intelligenza e in modo diffuso – può risultare assai convincente e, quindi, utile. Però ritengo che sia comunque necessario collocare la questione della presenza dei bambini dei laboratori e del loro lavoro nell’ambito dell’intera questione cinese, che ormai da troppo tempo chiede di essere vista e affrontata nella sua globalità, con interventi programmati ed incisivi, mettendo finalmente in atto quella sinergia istituzionale della quale più volte abbiamo parlato.

Ancora, nonostante vari sforzi e diverse cose positivamente avviate, non sembra superato quel metodo di approccio settoriale e di corto respiro, che ormai da tempo si è dimostrato incapace di affrontare con efficacia l’intera questione. Gli stessi imprenditori fiorentini, a mio avviso, dovrebbero trovare il coraggio di collaborare con quei giovani cinesi -e non sono pochi- che con serietà e convinzione cercano di interagire e di affermarsi con il loro lavoro. Solo se sapremo dimostrare che la legalità paga, riusciremo a battere quelle dinamiche che derivano da metodi e stili di vita assai diversi dai nostri.

Più volte mi domando se una vera e propria azione interculturale non possa aiutare tutti a riequilibrare le proprie concezioni formative. Ad esempio, i cinesi potrebbero sempre più rendersi conto che non è formazione equilibrata impiegare un bambino in attività lavorative, e noi italiani potremmo riflettere con maggiore attenzione sul fatto che la formazione ha bisogno di un ripensamento del rapporto scuola-lavoro. Se a 16 anni si può essere assunti come apprendisti, perché non prevedere che nell’iter scolastico già a questa età ci sia una «familiarizzazione concreta» con il mondo del lavoro?

Ritornando alla questione specifica dei bambini, oltre a ricercare il reato e ad applicarne le sanzioni, ritengo si debba operare con decisione e creatività per offrire a loro ed alle loro famiglie delle concrete possibilità alternative al laboratorio (e questo indipendentemente dal fatto che lavorino), promuovendo e proponendo momenti aggregativi, formativi, ludici e di sostegno scolastico, che consentano ai bambini cinesi di interagire con i bambini italiani anche fuori dell’orario scolastico. Esperienze, pur piccole, esistono. Vanno sostenute e si potrebbero ampliare e diversificare, anche attivando nuovi tipi di collaborazione con quelle realtà che già operano in questo ambito.