Cultura & Società

Perpetua e Felicita, le martiri madri

di Carlo LapucciL’espansione del Cristianesimo fu rapida nei primi secoli e si può dire che già alla fine del secondo la nuova religione si era stabilmente radicata nei principali centri del bacino mediterraneo, uno dei quali era Cartagine. Qui la Chiesa africana aveva il suo centro propulsore e la sede principale con una gerarchia completa. Basta ricordare Sant’Agostino per comprendere il contributo dato da questa chiesa allo sviluppo e al pensiero del Cristianesimo. Delle origini del Cristianesimo in Africa si sa poco e le prime notizie risalgono al 180, con il sacrificio dei Martiri Scillitani, sotto l’impero di Commodo. Anche i centri minori avevano comunità cristiane assai fiorenti una delle quali era quella di Tebourba (Thuburbo minus), centro a circa cinquanta chilometri da Cartagine. Durante la persecuzione di Settimio Severo furono arrestati molti cristiani, tra i quali i catecumeni, che ricevettero in carcere il battesimo, Saturnino, Revocato, Secondulo, ai quali si aggiunse il catechista Saturo. Inoltre fu chiamata a rispondere della sua fede Vibia Perpetua dell’età di 22 anni, di notevole cultura, educata nelle arti liberali e di buona famiglia, con due fratelli, di cui uno catecumeno, sposata e madre di un bambino lattante. Insieme a lei, venne arrestata Felicita, schiava, incinta di otto mesi, che forse viveva nella casa di Perpetua, della quale aveva la stessa età, ed era probabilmente sposa di Revocato. Secondulo morì degli stenti della prigionia. Tutti gli altri furono martirizzati nell’anfiteatro di Cartagine il 7 marzo 203. Le figure di spicco di questo gruppo di martiri furono le donne: Perpetua e Felicita. La loro testimonianza fece una grande impressione nel mondo cristiano africano e in genere in tutta l’area di questa nuova religione, tanto che la presenza di queste due figure si ritrova in scritti di grandi autori, in iscrizioni, in rappresentazioni artistiche antichissime. Le figure delle due santeLa caratteristica fondamentale di queste due sante è la maternità: mentre di solito altrove si trovano fanciulle vergini di giovane età che subiscono il martirio, come Agata, Lucia, Caterina, Cristina, Agnese, qui abbiamo due donne sposate, di diversa condizione, una già madre di un bambino e l’altra a un mese dal parto.

Si configura una situazione assai diversa, che viene complicata dagli opposti sentimenti che si agitano nelle due donne: la testimonianza della fede e l’amore per lo sposo, ma soprattutto per il figlio.

Di questo dramma abbiamo una rappresentazione e una narrazione nella Grande Passione (Passio S. Perpetuae et Felicitatis), risalente al III secolo che, con altri simili racconti del secolo successivo costituiscono una solida base per considerare storiche le figure e gli eventi. Abbiamo infatti una versione greca della Passio e una più breve in latino. Sant’Agostino dedica ben tre sermoni alle Sante. Tanto era diffusa la loro venerazione che il Santo dovette avvertire (Natura e origine dell’anima I, X, 12) che la storia di questa santa e del fratello Dinocrate non faceva parte delle scritture canoniche. Tertulliano le ricorda e i loro nomi furono inseriti nel cannone della Messa. Il nuovo calendario liturgico riserva loro la memoria obbligatoria nel giorno della loro morte, 7 marzo.

Le due Sante appaiono figure di grande rilievo, umanissime, tormentate dall’atroce loro scelta, se pure ferme nella decisione, al punto che Felicita, per poter ricevere il martirio con i propri compagni, chiede che sia accorciato il periodo della maternità e ha le doglie proprio quando cade la data segnata dal processo per il martirio. La legge infatti non consentiva l’esecuzione capitale delle donne incinte. Le nasce così una bambina che viene allevata da una sua sorella.

Perpetua è tormentata dal pensiero del bambino lontano e ottiene dai propri carcerieri che le sia consentito di averlo vicino in carcere per continuare ad allattarlo. Viene prima minacciata e maltrattata dal padre affinché abiuri e eviti a lui e alla famiglia il disonore della condanna. Arriva perfino a portarle durante la seduta del tribunale il bambino per convincerla, in realtà aumentandole lo strazio della sua decisione.

Felicita durante il parto si lamenta dei dolori e un soldato le domanda:– Se per il parto ti lamenti così, cosa farai quando ti sbraneranno le belve?Felicita gli risponde:– Ora ho patito io, allora soffrirà Cristo per me.I cristiani seguono il loro destino venendo condannati a lottare con le belve nell’anfiteatro in occasione del grande spettacolo destinato a solennizzare il giorno natalizio di Cesare Geta.

Presentati nell’arena, gli uomini irridono il governatore dicendogli a gesti che, se loro sono giudicati da lui, lui sarà giudicato da Dio. Saturnino e Revocato sono sbranati da un orso. Saturo viene dilaniato da un leopardo. Ci viene narrato da Perpetua l’ultimo pasto comune, che i cristiani condannati usavano fare insieme prima del supplizio. Il testo ci riferisce di un’altra consuetudine dei martiri, quella di scambiarsi prima della fine, davanti alla morte, il bacio di pace.

PerpetuaLa figura più consistente e fulgida di questo gruppo di martiri, quella che ha attratto più delle altre l’attenzione è quella di Perpetua, che ci permette di leggere una fonte genuina di quegli Atti dei Martiri, che sono le fonti primarie delle notizie sulla loro vita e la loro morte.

Questa volta non mettiamo qui il capitolo «leggenda», proprio perché ci troviamo di fronte a una vera e propria storia. Gli Atti primitivi noi li abbiamo in redazioni tarde, le cui documentazioni scritte sono databili di solito negli ultimi secoli del primo millennio. Sono spesso fortemente inquinate dalle operazioni degli agiografi, ovvero da quelle pie persone che, al fine di edificare maggiormente i lettori, amplificano, aggiungono, creano fatti o particolari mirabolanti, miracoli inusitati, spesso inutili o goffi, che confondono il testo, screditano le verità storiche che contiene, e soprattutto svisano le figure umane, ingessandole in una determinazione e un’inflessibilità, che tolgono loro ogni umanità, facendole come lame d’acciaio inflessibili, senza storia nella loro psicologia bloccata, ai confini della fissazione e della cocciutaggine.

Vero è anche che i migliori di questi agiografi, come Jacopo da Varagine, hanno il merito di riportare l’immagine popolare dei santi, che è costituita appunto dalla legenda e darci così una lettura con altre caratteristiche, ma i documenti autentici sono di ben altro valore.

Il fatto eccezionale della Passio Perpetuae è costituito dalla particolarità che è la stessa Perpetua a scrivere nella prigione il diario della sua carcerazione, con una sincerità, un’efficacia, una laconicità che ci riporta alle lettere scritte dai condannati a morte di altre persecuzioni, come quelle raccolte sulla Resistenza. Qui il dolore è dolore, la scelta atroce, la volontà debole e per questo eroica, lo strazio per la sofferenza inflitta agli altri, sia pure involontariamente, incancellabile.Ne facciamo solo un esempio. Nel racconto originale scritto da Perpetua non c’è nulla d’inverosimile, nulla volto ad autopresentarsi come eroina inflessibile, ma la partecipazione umana verso i parenti che soffrono è espressa in poche e toccanti parole: riguardo al fratello e alla madre essa scrive: «soffrivo perché li vedevo soffrire per me».

Soprattutto commisera il padre, che è lontano da lei anche spiritualmente. Dopo che le ha mostrato in tribunale il figlio, per indurla all’abiura, il vecchio, per essere allontanato, viene fatto percuotere con la verga dal procuratore Ilariano, adirato con lui, e Perpetua scrive: «Io sentii dolore per l’infelicità di mio padre: e, come se fossi stata battuta io stessa, mi afflissi per la sua vecchiezza sventurata».

Nelle redazioni agiografiche, di fronte ai parenti (sono alterati anche i rapporti di parentela) che le presentano il figlio invitandola a recedere, la reazione è assurda: «Ma quella, gettando il bambino e respingendoli, rispose: – Allontanatevi da me, artefici d’iniquità, perché io non vi conosco».

Lo stesso accade a Felicita. Mentre nella Passio originale il marito non si sa chi sia, nel rifacimento diviene pagano e, alla domanda del giudice se avesse marito, risponde: – Sì, ma ora lo disprezzo.

È una rara narrazione del martirio vista dall’interno e in un’ottica inconfondibilmente femminile con una straordinaria attenzione ai sentimenti, priva di risentimento e violenza, carica di amore materno per i compagni di dolore, per i parenti e senza rancore per i suoi aguzzini.

Tutto questo ne ha fatto un testo giustamente ammirato in ogni tempo e oggi significativo più che mai per l’attenzione che si rivolge al rapporto particolare della femminilità con il mondo e la vita.

Il martirioQuesto eccezionale documento ci permette di avere notizie certe e precise su quel capitolo tanto battuto e maltrattato da scritti e cinema, delle condanne alle belve. La mano di Perpetua passa ad altri il compito della narrazione, forse a Tertulliano, dopo averci descritto l’attesa nelle prigioni, la detenzione, la condizione dei condannati. È per noi incredibile che due donne possano essere state destinate a lottare con le belve e siamo indotti a pensare che lo spettacolo consistesse in una pura soddisfazione di una gratuita crudeltà, uno dei misteri dell’uomo.

Lo spettacolo, al contrario della pompa e della grandiosità con cui lo presentano le nostre ricostruzioni, risulta una cosa squallida: uno strazio assurdo di persone inermi, una uccisione da mattatoio che suscita i peggiori istinti umani. Anche qui gli agiografi, per fare effetto, hanno caricato le tinte di particolari e grandiosità che hanno reso quasi un sacrificio primitivo una stupida e crudele sopraffazione determinata, organizzata e collettiva, che non aveva neppure il rituale di una corrida.

Le due donne rifiutano di vestirsi da sacerdotesse di Cerere, per cui, spogliate vengono avvolte in reti e introdotte nell’arena. Il popolo insorge vedendo quei corpi fragili e inermi e le condannate sono rivestite di grandi tuniche e lasciate in balia di una enorme vacca furiosa che le assale e le strazia, non tanto però da ucciderle, per cui vengono finite in mezzo all’arena dalla spada di un gladiatore il quale, essendo inesperto stenta a trovare il punto vitale in cui colpire. È la stessa Perpetua che rivolge alla sua gola l’arma ed entra nel Regno di Dio con l’amica Felicita.

I corpi delle Sante furono sepolti a Cartagine nella Basilica Major. A quel tempo non si trattava di una grande chiesa a nove navate, come fu dopo, ma un ritrovo dei cristiani all’interno di un cimitero, non sotterraneo come a Roma, ma all’aria aperta, con edicole volte a proteggere altari che stavano sopra le tombe dei martiri.

Le visioni di PerpetuaPerpetua narra d’aver avuto durante la carcerazione quattro visioni in sogno, cosa che mostra l’importanza attribuita all’attività onirica in tale periodo. La più famosa è la prima nella quale si annuncia il suo martirio: «Vedo una scala di bronzo tanto alta che la sommità toccava il cielo; ai lati della scala vi erano infissi ogni sorta di strumenti di ferro: spade, lance, uncini, coltellacci, spiedi disposti in modo che, se qualcuno vi salisse, senza fare attenzione o senza avere gli occhi rivolti continuamente in alto, si sarebbe lacerato lasciando brandelli ci carne attaccata ai ferri. Ai piedi della scala stava accovacciato un drago di straordinaria grandezza, il quale tendeva insidie a quelli che tentavano di salire e col terrore impediva di salirvi… Salì per primo Saturo e in cima alla scala si voltò e disse: – Perpetua, ti aspetto, ma guarda che il drago non ti morda. Io risposi: – Non mi nuocerà in nome di Gesù Cristo».

Forse il Manzoni, involontariamente, ha cancellato dagli archivi anagrafici il nome di Perpetua, chiamando con questo nome nei Promessi sposi la più famosa domestica di canoniche e la più stizzosa vecchia zitella della letteratura, forse universale.

Anche il nome Felicita ha avuto una sepoltura (forse momentanea) con il contributo di un poeta: Guido Gozzano, che le ha conferito una patina di vecchio, d’antico, di personaggio d’un mondo perduto e anche strano, fatto di ricordi: La signorina Felicita, ovvero la felicità: «Signorina Felicita, a quest’ora / scende la sera nel giardino antico / della tua casa. Nel mio cuore amico / scende il ricordo. E ti rivedo ancora…».

Nulla di tutto questo apparteneva alle due donne ventiduenni, con ben altri temperamenti e ben altri cervelli. Comunque oggi si stenta a trovare una bambina che abbia uno di questi nomi, che sono bene auguranti e anche belli, se si riesce a prescindere dal peso delle loro portainsegne. Un tempo infatti erano frequenti.La presenza delle due Sante nella vita quotidiana è discreta: non hanno protezioni speciali, tranne un vago patrocinio per le donne gestanti e allattanti e non vi sono proverbi noti legati al loro nome e alla data della loro festa: 7 marzo.

Le grandi sante: le precedenti puntate

6. Agnese, santa della forza e della mitezza

5. Cristina di Bolsena, la martire fanciulla

4. Mustiola, la santa che camminò sulle acque

3. S. Caterina d’Alessandria tra culto e mito

2. Agata, la Santa del mistero della vita