Prato

Perché Prato può rialzarsi prima degli altri

Il giorno in cui il Metropolitan Museum riaprì, dopo il crollo delle Torri Gemelle nel 2001, fu visitato da oltre 8.000 persone. All’epoca non c’era la preoccupazione degli assembramenti, anzi. Tutte quelle persone smarrite, impaurite, disorientate si diressero come in pellegrinaggio in uno dei luoghi simboli di New York: un segno inequivocabile di come la cultura è molto, molto di più di un intrattenimento (pur a scopo lodevolmente educativo, s’intende). La cultura è identità, spazio sociale, partecipazione, salvezza e cura. Partendo dalla parola identità e chiudendo con la parola cura, proverò a spiegare perché Prato, prima di altre città toscane e italiane, può essere in grado di uscire dalla crisi andando a costituire quell’avanguardia a cui tendere e che, in qualche misura, sta nel suo DNA. E per farlo non deve che prendere consapevolezza di quelli che per certi aspetti ancora le appaiono punti di debolezza, e di come possano trasformarsi, adesso, in straordinari punti di forza.

Prato è la città dalla mobile identità. Stretta al suo glorioso passato industriale che fonda le radici nella figura del mercante Francesco Datini, si discosta in termini di brand dalle vicine Firenze, Lucca, Siena, Pisa, (per certi versi anche Pistoia), dalle loro identità artistiche e fortemente ancorate ad un patrimonio tangibile e storicizzato. Non è un caso che il primo centro di arte contemporanea d’Italia sia stato costruito ex novo a Prato: il Centro Pecci, segno di una città che vuole legare la sua immagine all’intraprendenza, all’innovazione e alla contemporaneità. L’identità di Prato, ed anche la sua economia, non è mai stata legata al turismo, il settore più colpito insieme al commercio, ed anche quegli operatori che ne fanno parte, come il settore alberghiero e della ristorazione, possono di buon grado affermare che la loro business continuity è stata garantita dal distretto tessile più che dai turisti, che negli ultimi anni si stavano affacciando in città. Gli stessi musei cittadini hanno costruito la loro capacità di attrattiva lavorando verso un pubblico domestico: un bacino, quello pratese, ancora enormemente ampio e inespresso. Ecco allora i laboratori con le scuole, le le visite ai luoghi segreti, i crowdfunding per il costume ritrovato al museo del tessuto. Lo stesso i nostri teatri e la nostra orchestra, la Camerata strumentale città di Prato. Questa scelta, visionaria e robusta al contempo, così faticosa da sostenere ieri, domani ritornerà potente, nel desiderio dei pratesi di riappropriarsi dei loro spazi. Insomma, domani, non essere imbrigliati in confini stereotipati e da cartolina, potrebbe essere per la città un vero vantaggio competitivo.

Prato può essere definita una bella città? Spesso – e a ragione – in numerosi contributi nazionali torna il tema della bellezza in chiave salvifica. Ma quale bellezza, verrebbe da dire. Un tema fondante sul quale, un po’ come per la mobile identità, non possedere la bellezza iconica accecante di certe città vicine, può essere un vantaggio. Prato, a differenza delle altre, è la città che ha un piano operativo (urbanistico) approvato con un focus importante sugli spazi verdi e la giungla urbana: quando sui vari media leggiamo « …nome della città… post pandemia sarà verde e digitale» o « …nome della città… nel futuro parchi, giardini e una nuova urbanizzazione» (con i verbi declinati rigorosamente al futuro), ecco tutto questo, a Prato, rappresenta il presente, nel senso che la Pubblica amministrazione ha già avviato questo processo con obiettivi definiti e un piano operativo. Sapendo quanto siano lunghi i tempi della burocrazia, c’è da esser sollevati rispetto ai proclami che si sentono in giro. Dal punto di vista urbanistico poi, Prato è una città policentrica: ha senz’altro nel suo centro storico il fulcro della storia ma è un modello di centro irradiante, che si sviluppa su molte direttrici (ben oltre il cardo e il decumano romani) che vanno a costituire le sue periferie, a loro volta dei veri e propri centri: con anima, comunità, infrastrutture e servizi, una prossimità quanto mai provvidenziale in tempi di virus e distanziamenti sociali. In altre parole abbiamo gli anticorpi naturali perché vi sia una distanza fisica ma non venga compromessa una vicinanza sociale: le persone vivono non solo di bisogni materiali, quanto culturali, sociali, spirituali e forse mai come adesso ad essi stiamo dando valore. E tutto questo patrimonio immateriale, se ben compreso, gestito e comunicato, restituirà, come una flebo, per tempi ed intensità, valore economico.

Prato è smart. Prato è tra le 5 città italiane che ha avviato la sperimentazione sul 5G, quell’asset emergente che potrà guidare una ri-conversione da distretto manifatturiero (con il suo spiccato profilo hardware) a distretto della conoscenza (con una nuova vocazione ad essere piattaforma porosa, innovativa e inclusiva). Ferma restando un’istanza, oggi più che mai attuale, di salute e sicurezza per la propria comunità, Prato può davvero candidarsi a diventare quel laboratorio in cui piattaforme e contenuti prendono forma: se cito Netflix penso che l’immagine divenga ancor più comprensibile. Prato può essere la città che incarna il superamento del radicamento territoriale specifico (senza perdere identità), superando la retorica del digitale e delle white label per intraprendere un percorso progettuale e infrastrutturale con uno stile ed un linguaggio propri. Penso – tra le tante suggestioni – all’heritage marketing attraverso l’uso del patrimonio storico a favore delle imprese e alle Zes, zone franche economiche, ma anche culturali, legate al riuso e all’archeologia industriale.

Prato è la città del lavoro: e allora come fa, con una crisi annunciata, ad entusiasmarsi? Sicuramente dovrà affrontare la duplice emergenza: finanziaria prima ed economica poi, e dobbiamo prendere atto, realisticamente, che questa pandemia colpisce un distretto non scevro da criticità ante covid. Come appare lontana l’onda infinita, vestita col tricolore, di «Prato non deve chiudere». Era il 2009, quando la conclamata crisi finanziaria, che all’epoca arrivava dall’occidentale America, aveva presto svelato le sue caratteristiche economiche, dunque strutturali, in cui anche il distretto tessile verrà stretto in una morsa che ha lasciato il segno. Adesso è un minuscolo organismo che arriva dall’oriente a metterci in difficoltà, e che una volta per tutte ci fa cogliere la sostanziale differenza tra rischio e incertezza, parole che sono state spesso confuse, o considerate erroneamente sinonimi. Il rischio è misurabile, l’incertezza no. Oggi, nel pieno di questo anno bisestile (vorremmo dire horribilis, se non ci soccorresse la provvida sventura di manzoniana memoria), possiamo ripartire dalle parole che per esigenze comunicative (e per una precisa scelta) nel 2009 furono tagliate, enfatizzando l’originale seconda frase (Prato non deve chiudere) che doveva servire ad accendere un occhio di bue sul distretto in difficoltà. «Prato ha stoffa” avrebbe dovuto precedere (o sostituire) quel «non deve chiudere» che rinviava anche ad altri (governanti, decisori politici, sistema bancario, ecc.) la risoluzione del problema. Prato ha stoffa, verrebbe da dire in questo preciso istante, recuperando un non detto che è la sua autenticità: quel sapere e saper fare che deve divenire sapere contestuale, sapere trasformativo ed evolutivo. Perciò, pur in questa fragilità e liquidità glocal (globale e locale), il sistema terrà se saprà attivare una serie di energie che già possiede. L’inclusione partecipativa, un lievito generativo nelle singole aziende e nella filiera; la determinazione nel trasferimento di nuove skills da innestare sulle competenze tradizionali; l’inventiva da profondere sulla trasformazione del modello di business (ben oltre, nel medio lungo termine, la capacità di passare dalla produzione di pezze alla produzione di mascherine e dispositivi di sicurezza); un nuovo patto fiduciario tra imprenditori e tra imprenditori e lavoratori e collaboratori; modalità inedite di credit management e un diffuso spirito generativo.

Prato è anche la città con la più ampia comunità cinese d’Europa: e qui bisogna aprire una riflessione seria, che non può risolversi in meri proclami tra cinesizzazione del pianeta o salvagente domestico come lo è stato negli anni in cui si sono sostituiti ai pratesi e/o hanno occupato gli enormi spazi dei macrolotti garantendo la tenuta di una rendita immobiliare. La Cina è stato il primo paese in cui ufficialmente il virus si è diffuso e per qualche giorno (ormai misuriamo il tempo in settimane, giorni, ore, non più in stagioni) abbiamo avuto paura; paura che fossimo noi, i pratesi, primi naturali destinatari del contagio. Non so con quanto stupore, perché abbiamo ancora la memoria corta (ma dovremo apprendere invece a trasformare il ricordo in memoria), nel giro di poco tempo, abbiamo compreso che potevamo godere di una sorta di immunità, in larga parte garantita da un comportamento (preventivo ma non solo) della comunità cinese estremamente diligente, grazie al rigore con cui si sono attenuti alle prescrizioni. Domani con lo stesso rigore (l’economista Luca Paolazzi in un suo articolo ha citato la massima «calma e gesso») rimetteranno mano all’attività economica? Se così fosse, e riuscissimo ad improntare quella che sarà una nuova ferialità con istanze di compliance, sostenibilità e collaborazione, Prato, non sarebbe più (sol)tanto il laboratorio che a lungo è stata l’immagine di un crogiuolo di complessità e multiculturalità (due tra le parole più interessanti che abbiamo ereditato dal secolo scorso), quanto avere la visione e la struttura di una «global city at small scale».

Prato è la città dell’economia circolare: questo richiamo, come riflessione finale, non è casuale. Qui non ci soffermeremo a spiegare un concetto che i pratesi conoscono e sentono come proprio, ben oltre i perimetri della merceologia, avendo la primogenitura d’aver creato processi di rigenerazione resiliente, quanto piuttosto cogliere dentro questa dimensione, che ha investito negli ultimi tempi ante Covid, anche e prepotentemente, il sistema moda, il vaccino per quella che potremmo chiamare l’«economia della cura».Una cura che non potrà essere più solo appannaggio di quelle professioni – mediche, infermieristiche, degli operatori sanitari e dei volontari, veri eroi di questo tempo -. Una cura di cui ciascuno di noi dovrà farsi novello sherpa e che investirà la salute, l’economia e lo spirito: negli ospedali e nelle RSA, nelle scuole, gli uffici, i negozi e le fabbriche, le chiese e gli oratori, luoghi che ai nostri occhi non appariranno più gli «stessi» e nei quali come pratesi saremo chiamati a portare operosità e lavoro ma anche misericordia, determinazione e caparbietà ma anche pietà, intraprendenza e visione ma anche solidarietà.

Prato ha stoffa, eccome. Buona ventura Prato.