Cultura & Società
Perché la sofferenza? Il grido di Giobbe risuona anche oggi
Una mostra sulla sofferenza in un luogo di dolore. Ma non di emarginazione, perché posto nel cuore della città, a testimonianza di quanto centrale, nella Firenze del XIII secolo, fosse la cura dei malati e dei bisognosi. Grazie all’impegno di un gruppo di giovani amici e all’accoglienza da parte della Fondazione Santa Maria Nuova, l’antico ospedale ha ospitato per i primi sedici giorni di giugno nel Chiostro delle Medicherie i pannelli dell’esposizione «C’è qualcuno che ascolta il mio grido? Giobbe e l’enigma della sofferenza», che aveva debuttato al Meeting di Rimini dello scorso anno. E nell’auditorium di un altro ospedale, il Cto di Careggi, la sera di mercoledì 12, è stato possibile incontrarne il curatore, il teologo spagnolo don Ignacio Carbajosa.
Le ragioni dell’iniziativa ci erano state spiegate in un’intervista video disponibile su www.toscanaoggi.it da uno dei promotori, Alessio Vannucci. E la sera del 12 giugno don Carbajosa, Nacho per gli amici, ha riproposto i punti essenziali del percorso della mostra, che intreccia la drammaticità della vicenda biblica di Giobbe con la perenne domanda dell’uomo sul male e la sofferenza innocente. Un interrogativo che, a partire dal terremoto di Lisbona del 1755, è arrivato a mettere in dubbio la bontà e l’esistenza stessa di Dio, come testimoniano non solo posizioni filosofiche e testimonianze letterarie ma anche un giudizio comune piuttosto diffuso. E le occasioni, nel corso dei secoli ma anche in tempi più recenti, purtroppo non sono certo mancate: dai campi di concentramento alle guerre, dai disastri naturali agli attentati terroristici. Il grido di Giobbe, che non a caso riecheggia a più riprese nella letteratura contemporanea, si ripropone quindi in modo assolutamente attuale, come un vero e proprio litigio con il Creatore, cui chiede ragione di tanta sofferenza innocente. E Dio si manifesta, non dà spiegazioni ma rende nuovamente evidente la sua bontà. Una presenza che trova il proprio compimento in Gesù, volto concreto della misericordia del Padre che a sua volta ha attraversato la sofferenza dell’innocente e che resta compagnia al nostro fianco.
Ma solo delle esperienze concrete di vita, di dolore seguito da un’abbondanza di frutti, di croce e di resurrezione possono trasformare in carne ciò che altrimenti potrebbe restare a livello di discorso teologico. Così è stato nella mostra, e non solo: la sezione finale sui testimoni presentata al Meeting 2008 era conclusa da un pannello su don Paolo Bargigia, il sacerdote fiorentino ammalato di Sla morto nell’agosto di due anni fa, e nell’allestimento fiorentino è stato aggiunto un pannello su Caterina Morelli, la giovane dottoressa scomparsa a febbraio la cui vicenda ha raggiunto una notorietà impensabile: e anche all’incontro con don Carbajosa i veri protagonisti sono stati loro, assieme a un ultimo «nato al cielo», il medico Roberto Giulio Romanelli. A parlare di don Paolo è stato il suo amico di sempre don Giovanni Paccosi, missionario con lui in Perù e poi, come ha ricordato, assieme nella parrocchia di Casellina fin quando «è andato da Gesù», dopo aver vissuto la malattia come «una vocazione nella vocazione».
Di Caterina ha parlato, in un intervento non programmato, la mamma Maria Chiara, già recente ospite di «Bel tempo di spera» su Tv2000. «Noi – ha detto – non abbiamo censurato niente, mai, mai. Sia per volontà di Caterina, ma poi anche proprio per convenienza nostra. Le domande della Caterina piano piano sono diventate la nostra vita». E il modo con cui tutto questo è stato vissuto ha reso possibile una serenità tangibile, anche nei nipotini. Una serenità poi testimoniata, per quanto riguarda Roberto, dalla moglie Maria, che non ha nascosto di aver creduto a sua volta di morire dopo l’improvvisa scomparsa del marito, avvenuta solo pochi giorni dopo la morte dell’anziano padre, ma che ora si trova a vivere, grazie anche alla vicinanza degli amici, una consolazione e una gratitudine inattese.
Sono solo testimonianze come queste a renderci evidente che il grido di Giobbe anche oggi non resta inascoltato. Come chissà quante altre in tutto il mondo, come quella che Jonata, il marito di Caterina, ha portato al recente pellegrinaggio Macerata-Loreto. «Quando è salita al cielo, l’8 febbraio – ha detto tra l’altro – c’è stato un vuoto enorme, per tutti noi. Quel vuoto non è stato mai vuoto. È stato colmato con qualcos’altro. Qualcosa che non avverti, se ti muovi troppo bruscamente. Ma se fai attenzione e ti appoggi con delicatezza ti sostiene. Una compagnia che non finisce più. Chiaramente l’assenza fisica di Cate pesa, eccome! Ma la presenza del Signore ha portato una strana calma consolatrice in noi. La disperazione non ci ha mai colto». Colpiti dal dolore ma toccati da una Grazia inattesa. Al punto da tatuarsi sul braccio su invito della nipotina, come ha fatto Maria Chiara («tanta roba a 64 anni», ha esclamato suscitando l’ilarità generale) la frase che ripeteva la figlia: «Caterina, la volontà di Dio rende tutto perfetto».