Lettere in redazione
Perché la politica non diventi una professione
Gentile direttore, ho letto con grande interesse il servizio di Marco Lapi su alcuni cattolici impegnati in politica (Giovani cattolici e impegno politico). Poichè si tratta di giovani, vorrei dare un suggerimento a loro e a tutti coloro che, sull’orma del card. Bagnasco, giustamente auspicano un rinnovato impegno dei cristiani. Perché la politica sia veramente al servizio del bene comune occorre che non divenga una professione. Quando questo accade, come purtroppo ora quasi sempre, la ricerca del successo e della continuità finiscono per prevalere su qualsiasi obiettivo ideale. Il compromesso, vestito da realismo, diviene la regola, nel migliore dei casi, spesso anche sul piano etico.
Come evitare allora il professionismo politico? Da parte dei singoli cercando di avere alternative per sopravvivere anche se non eletti e, quindi, dedicarsi alla politica quando già si ha un mestiere, possibilmente non precario. Da parte del sistema limitando i compensi per tutte le posizioni elettive che non chiedano il tempo pieno e limitando il numero delle volte in cui si può essere eletti. Si obietterà che fare un lavoro e dedicarsi alla politica richiede un forte impegno e molti sacrifici. Ma non sono disinteresse personale e capacità di sacrificio le qualità che tutti vorremmo da chi si occupa della cosa pubblica e che l’esperienza di alcuni politici cattolici, da La Pira a De Gasperi, ha mostrato essere una realtà?
Diciamo subito che questa settimana, quel servizio a cui fa riferimento, caro Grassini, si completa con la parola alle giovani donne che crescono… in politica (primo piano a pagina 2). È bello vedere ragazzi e ragazze che si impegnano per il bene comune. Ma quant’è difficile! Un po’ per un certo disimpegno, che sembra coinvolgere tutti e quindi anche le nuove generazioni, ma soprattutto perché i ragazzi non trovano spazi e sostegno, oltre a non avere dei grandi esempi contemporanei, tranne qualche eccezione, che fortunatamente non manca. È giusto quello che lei dice: «Perché la politica sia veramente al servizio del bene comune occorre che non divenga una professione». E propone di «dedicarsi alla politica quando già si ha un mestiere, possibilmente non precario». Io sarei d’accordo, ma la questione è che quando i giovani del 2010 avranno un lavoro stabile, probabilmente, non saranno più tanto giovani. Questo mi sembra il problema attuale per i giovani: trovare un lavoro stabile (qualcuno si accontenterebbe anche di un lavoro precario). È inutile, come scrive questa settimana il segretario regionale della Cisl, che ci dicano che la crisi è alle spalle se l’occupazione continua a diminuire.
Sul limite dei mandati non ho dubbi, mentre sugli stipendi ci sarebbe da ragionare soprattutto su quelli dei politici a tempo pieno. Penso ai parlamentari, ma anche ai consiglieri regionali (i cui stipendi vanno in percentuale a rimorchio dei primi). A volte, infatti, un amministratore locale ha molte più responsabilità e molto meno stipendio rispetto a un deputato o a un senatore senza particolari incarichi di governo o d’altro. Per non parlare dei «benefit».