Vita Chiesa
Perché i santi cercano la sofferenza? È un modo per amare
«Leggendo la vita di alcuni santi, mi ha colpito il fatto che invitino a cercare la sofferenza come strada per avvicinarsi a Cristo». La risposta del teologo
Leggendo la vita di alcuni santi, mi ha colpito il fatto che invitino a cercare la sofferenza come strada per avvicinarsi a Cristo. Capisco che si dica di vivere il dolore con fede, ma addirittura cercarlo come se fosse una cosa buona… Non è un modo per mostrare disprezzo verso le tante cose belle che Dio ci ha donato?
Lettera firmata
Risponde padre Valerio Mauro, docente di Teologia sacramentaria
La domanda del lettore si presenta molto problematica perché mette in gioco espressioni della fede vissuta contrastanti e di non facile sintesi. La risposta qui offerta è ben consapevole che non potrà essere esauriente sia per lo spazio a disposizione, ma soprattutto per la complessità della questione.
La prima considerazione da fare è fondamentale. La domanda nasce dalla lettura della vita di alcuni santi. Ci troviamo, quindi, nel campo dell’agiografia, un terreno dove gli esempi di vita evangelica giungono a noi attraverso un’interpretazione necessariamente segnata da circostanze culturali. Pensiamo alla figura di Francesco d’Assisi. I suoi principali biografi, da Tommaso da Celano a Bonaventura da Bagnoregio, all’anonimo della Compilatio Assisiensis ce lo presentano secondo prospettive legate a intenzioni diverse che si riflettono nella narrazione dei medesimi episodi, descritti attraverso letture divergenti. Anche le stesse autobiografie risentono sempre dell’atmosfera culturale nella quale i santi sono vissuti, respirando la specifica spiritualità dell’epoca. L’invito alla sofferenza colto dal lettore in alcune biografie va situato in questo panorama, ripensandolo con attento senso critico.
Una seconda considerazione fa sfumare l’alternativa secca fra una tensione alla sofferenza e l’apprezzamento delle cose belle che il Creatore ci ha consegnato, perché le custodissimo e usassimo per il bene comune. Ripensiamo ancora a Francesco d’Assisi. Ben consapevole di come l’acqua o il fuoco possano rivolgersi in calamità, non esita a lodare il Signore per questi e altri doni della sua bontà. Eppure, nell’esperienza drammatica sul monte della Verna, secondo la tradizione, chiede due grazie: «la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione; la seconda sì è ch’io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figlio di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori» (Fioretti, Terza considerazione sulle stimmate).
Nel desiderio di provare sofferenza e amore come Gesù, troviamo una prima risposta alla domanda del lettore. Egli ha ragione quando sottolinea come in sé stessa la sofferenza non sia un valore e come tale chieda di essere eliminata o lenita. Il Signore ci ha promesso un’abbondanza di vita (Gv 10,10), assumendo come valore assoluto il Regno, intessuto di relazioni secondo la volontà del Padre. La tensione intima e totale di Gesù era verso l’adempimento della volontà del Padre e la sua realizzazione nell’avvento del Regno. Lo spingeva un’unica motivazione: l’amore verso il Padre e gli uomini che non si è vergognato di chiamare fratelli (cf Eb 2,11). Solo nell’ottica di questo amore vissuto sino all’estreme conseguenze, si colloca l’accettazione della sofferenza e della passione: «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Nella storia concreta dell’umanità l’amore apre una finestra alla sofferenza, perché le vicissitudini della persona amata ci coinvolgono attraverso il desiderio di comunione, di condivisione della sua vita, dei suoi sentimenti. Ecco il senso della preghiera di Francesco a La Verna. Non è altro che l’ardente desiderio, espresso in modo umile e discreto, di sperimentare una comunione con l’esperienza storica di Cristo, fin dove l’ha portato l’amore verso l’umanità. Credo sia possibile in particolari esperienze spirituali giungere a un tale eccesso di amore da desiderare di condividere le sofferenze di Cristo. Che questa tensione personale si possa, poi, declinare in inviti rivolti ad altri, chiede un discernimento più attento e prudente. E questo pensiero ci riconduce alla prima considerazione fatta. Di fronte a ogni agiografia non siamo chiamati a diventare fotocopie identiche di quanto narrato, ma dobbiamo raccogliere quel cuore evangelico che l’esperienza spirituale dei santi ci testimonia. Questo accade attraverso la cultura nella quale sono vissuti, ma si configura sempre come un abbandono di fede all’amore che Dio ha mostrato, donando per tutti il suo unico Figlio.