Opinioni & Commenti
Pena di morte, crudeltà estrema
di Romanello Cantini
E’ anche ormai definitivamente dimostrato che è un’illusione credere che la pena di morte sia un deterrente capace di far diminuire i reati come spesso si dice, soprattutto quando siamo sconvolti dai delitti più atroci. La forza di dissuasione della giustizia non sta nella durezza, ma nella certezza della pena. Chi delinque non fa i suoi calcoli sulla base della pena che gli sarà inflitta, ma sulla possibilità di farla franca. Non ci sono casi in cui sia stato dimostrato che la pena di morte abbia reso più buoni i cittadini. Anzi. In Canada dopo che è stata abolita nel 1976 i reati sono diminuiti del 20%. Gli stati americani dove si ha il maggior numero di esecuzioni capitali (Texas, Virginia, Oklahoma, Missuri, Florida) sono quelli che hanno un tasso di criminalità tre volte superiori agli altri stati dell’Unione. E la pena di morte risponde più spesso alla geografia che alla giustizia, nel senso che è la cultura del luogo che la chiede, la impone e la moltiplica al di là di qualsiasi considerazione di sicurezza. Negli Stati Uniti la metà delle esecuzioni sono concentrate nel Texas e la metà di queste nella sola contea di Harris (Huston).
Secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International nel 2006 il 90% delle esecuzioni capitali sono avvenute in sei Paesi: 1.010 in Cina, 177 in Iran, 82 in Pakistan, 65 in Iraq e in Sudan, 53 negli Stati Uniti. Il numero dei paesi che applicano ancora la pena di morte si sta restringendo. Oggi hanno abolito la pena di morte 93 paesi e altri trenta non la applicano da dieci anni. Tuttavia la pena di morte minaccia la maggior parte della popolazione del pianeta ancora oggi. Rimane infatti in vigore in quasi tutta l’Asia se si eccettuano la Cambogia, il Nepal e le Filippine. Grandi paesi, che da soli rappresentano quasi la metà della popolazione del pianeta, la mantengono. È ancora in vigore non solo in Cina, ma anche in India e Giappone che pure sono le democrazie dell’Asia. Nel Medioriente è stata abolita solo in Israele anche se la Giordania ci sta pensando. Soprattutto l’esempio degli Stati Uniti è nefasto perché esclude dalla costituzione di uno stato, che pretende di essere il paladino della libertà nel mondo, un fondamentale diritto civile.
L’iniziativa presa dall’Italia nel luglio 2006 e fatta propria dall’Ue nel maggio scorso per far approvare dall’Onu una proposta di moratoria universale della pena di morte avrà un effetto trascinante anche se non vincolante. In questa battaglia hanno giocato un ruolo essenziale certe rigidezze degli abolizionisti che rischiano di irritare gli abolizionisti di fatto e soprattutto una insidiosa manovra che, come spesso accade quando si tratta di diritti umani, tende a far apparire l’iniziativa come una sorta del solito «imperialismo culturale» dell’Europa nei confronti del Terzo Mondo.
La Toscana ha il vanto di essere stata il primo stato ad abolire la pena di morte nel lontano 1786. Da anni ormai celebriamo questo primato anche se il suo merito va a un sovrano austriaco e meno a quei toscani dell’epoca che appena poterono richiesero e ottennero il ripristino della pena capitale. Spetta ai toscani del Duemila mettersi in regola con questa primogenitura al di là dei canonici fuochi d’artificio. Anche per il bisogno di andare oltre l’Europa di cui si è detto, le Giornate internazionali contro la pena di morte, che sono partite dalla nostra regione e che coinvolgono almeno 600 città in tutto il mondo sono un fatto qualificante più di qualsiasi onorevole discendenza.
La classica fucilazione anche dopo il colpo di grazia mantiene viva la coscienza del condannato per un tempo ancora incerto. La vecchia impiccagione soffoca lentamente, tronca il collo, strappa pezzi di carne dal mento, fa schiattare gli occhi dalle orbite, defecare e orinare e contorcersi spasmodicamente per 8-10 minuti prima di morire. La sedia elettrica con la sua corrente a 2 mila volt brucia il corpo, fa saltare fuori gli occhi, arrostire il viso tanto che il condannato viene coperto con una maschera per non terrorizzare perfino il boia in un’agonia che dura almeno dieci minuti. L’iniezione letale praticata su tutte e due le braccia perché spesso esce di vena, introduce nell’organismo curaro ed altre sostanze che bloccano i muscoli e distruggono il corpo mentre la sensibilità continua per circa dieci minuti anche se il condannato paralizzato non ha la possibilità di urlare il proprio orrore e il proprio dolore.
La crudeltà oscena della morte di stato non sta soltanto in questi minuti eterni della sua esecuzione, nello spettacolo dei condannati portati semisvenuti al patibolo, nelle urla disumane di chi ancora all’ultimo momento vuol rimanere attaccato alla vita nonostante sia stato ridotto ad un recipiente di sedativi.
Il vecchio Beccaria, più citato che letto, dichiarava di preferire l’ergastolo alla pena di morte anche per una considerazione tutt’altro che umanitaria che dovrebbe far riflettere coloro che ritengono che il carcere a vita sia una pena troppo mite. Svolgendo la logica della filosofia sensista tipica del suo tempo e misurando la quantità di dolore inflitto, sosteneva che il condannato a morte soffre solo per pochi minuti mentre l’ergastolano soffre per tutta la vita. Non aveva del tutto torto visto che qualcuno sceglie ancora di uscire dal carcere con il suicidio. Ma l’autore de «Dei Delitti e delle pene» non aveva considerato che il condannato a morte muore due, tre, quattro, cento volte quando viene rimandata l’esecuzione e muore tutti i giorni quando, come accade in Giappone, la data dell’esecuzione non viene comunicata e il condannato vede entrare la morte tutte le volte che si apre la porta della sua cella.
E dopo la morte non c’è alcuna possibilità di riparazione di un errore giudiziario. Negli Stati Uniti sono 124 i condannati che negli ultimi trent’anni sono stati riconosciuti innocenti dopo aver passato anni nel corridoio della morte. E nessuno sa quanti sono i giustiziati che non hanno fatto in tempo ad essere riconosciuti tali. Sette anni fa il governatore dell’Illinois graziò tutti i condannati a morte del suo stato dopo che si era scoperto troppo tardi che alcuni innocenti erano stati giustiziati.
C’è ancora chi crede che un omicidio deve essere punito con un altro omicidio di stato somministrato a freddo ad un essere che dopo anni non solo è incapace di nuocere ma non è nemmeno la stessa persona. Quando lo stato uccide rende nella mentalità della gente meno illecito l’assassinio assumendolo in proprio, lo banalizza e in un certo senso lo consacra ospitandolo con tutti gli onori dovuti alla maestà della giustizia fra le proprie leggi. Durante la Rivoluzione francese, quando la condanna a morte era diventata un’industria di stato divenne anche il reality più di moda tanto che le casalinghe parigine per rilassarsi andavano a fare la calza sotto la ghigliottina. L’idea stessa di riparazione non ha senso con la pena di morte. Persino un giudice di pace mi può ridare un auto sfasciata, ma nessuna corte d’assise mi può ridare un parente o un amico ammazzato. L’idea della vendetta presume di risarcire una morte mettendocene accanto un’altra anche se due morti non hanno mai fatto una vita. «Nelle mani di Dio è l’anima di ogni vivente e lo spirito di ogni corpo umano» dice il Libro di Giobbe. Per un cristiano appare impossibile rivendicare qualsiasi deroga a questo monopolio che Dio ha voluto riservarsi sulla nostra vita. Ed ogni eccezione cerca inutilmente di rompere una coerenza in cui è temerario cercare di aprire una breccia. Sempre e dovunque quando si uccide in casa, per strada, in un ambulatorio, in un ospedale o in un carcere non possiamo fare a meno di sentire di esserci seduti al posto di Dio.
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