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Pena di morte: Amnesty, condanne ed esecuzioni in calo. Dall’Africa la speranza

Calano del 4% le esecuzioni nel mondo, mentre le condanne a morte scendono da 3.117 nel 2016 a 2.591 nel 2017. Il decremento più significativo è in Africa. Restano sulla lista nera con il più alto numero di condanne ed esecuzioni: Cina, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Pakistan. Sono i dati del rapporto annuale di Amnesty international sulla pena di morte.

Si inverte finalmente il trend dell’omicidio di Stato, con un positivo calo delle condanne a morte e delle esecuzioni in tutto il mondo. Il decremento più significativo è in Africa, con la Guinea che diventa il 20° Stato abolizionista per tutti i reati nell’area sub-sahariana. Secondo il rapporto sulla pena di morte nel mondo reso noto da Amnesty international, nel 2017 vi sono state 993 esecuzioni in 23 Stati (1.032 nel 2016, il 4% in meno), il 39% in meno rispetto alle 1.634 del 2015, il picco più alto.

Lo scorso anno sono state emesse almeno 2.591 condanne a morte in 53 Stati, rispetto al numero record di 3.117 nel 2016. Oltre alla Guinea, nel 2017 la Mongolia si è aggiunta al totale degli Stati abolizionisti, il cui numero alla fine dell’anno era salito a 106, ossia più della metà dei Paesi del mondo. Dopo che il Guatemala ha abrogato la pena di morte per i reati comuni, il numero degli Stati che per legge o nella pratica hanno abolito la pena di morte è salito a 142.

Solo 23 Stati, come nel 2016, hanno continuato a eseguire condanne a morte, in alcuni casi dopo periodi di interruzione. Ma anche se ci sono stati dei significativi passi in avanti, secondo Amnesty, non è ancora il momento di abbassare la guardia perché ci sono ancora almeno 21.919 prigionieri in attesa di esecuzione nel mondo.

In Africa, ad esempio, il Kenya ha cancellato l’obbligo di imporre la pena di morte per omicidio e Burkina Faso e Ciad si stanno avviando a introdurre nuove leggi o a modificare quelle in vigore per abrogare la pena capitale. Nel 2016 Amnesty aveva registrato esecuzioni in cinque Stati della regione, mentre nel 2017 solo in Sud Sudan e Somalia, anche se sono riprese le esecuzioni in Botswana e Sudan. Il Gambia ha firmato un trattato internazionale che l’impegna a non eseguire condanne a morte in vista dell’abolizione della pena capitale e nel febbraio 2018 il presidente ha istituito una moratoria ufficiale sulle esecuzioni. «I progressi dell’Africa subsahariana rafforzano la posizione della regione come faro di speranza e fanno auspicare che l’abolizione di questa estrema sanzione, crudele, inumana e degradante sia in vista», dichiara Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International.

Nel mondo. Lo scorso anno sono state emesse almeno 2.591 condanne a morte in 53 Stati, rispetto al numero record di 3.117 nel 2016. Come sempre – purtroppo – questi dati non comprendono le condanne a morte e le esecuzioni in Cina: secondo Amnesty, sono state migliaia, ma i numeri sono considerati segreto di Stato. Un passo in avanti significativo è stato l’aumento della quantità di droga che fa scattare l’obbligo della condanna a morte in alcuni Paesi che ne sono fieri sostenitori. In Iran le esecuzioni registrate sono diminuite dell’11 % rispetto al 2016 e la percentuale delle esecuzioni per reati connessi alla droga è scesa del 40%. In Malesia è stata introdotta la discrezionalità della pena nei processi per traffico di droga. L’Indonesia, che aveva messo a morte quattro prigionieri per reati connessi alla droga nel 2016 non ha eseguito alcuna condanna a morte nel 2017 e ha fatto registrare una lieve diminuzione del numero delle nuove condanne.

La lista nera. Sulla lista nera dei Paesi che ancora la praticano ci sono 15 Stati, con un numero record nella regione Medio Oriente/Africa del Nord mentre la regione Asia/Pacifico si conferma quella col maggior numero di Stati che usano la pena di morte per quel genere di reati. Vi sono state esecuzioni per reati connessi alla droga in quattro Stati: Arabia Saudita, Cina, Iran e Singapore.

Il clima di sicurezza che circonda la pena capitale in Malesia e Vietnam ha reso impossibile accertare se siano state eseguite o meno condanne a morte per reati connessi alla droga. Singapore ha impiccato otto prigionieri, tutti per reati connessi alla droga, il doppio rispetto al 2016. Una tendenza del genere è stata osservata in Arabia Saudita, dove le decapitazioni per reati connessi alla droga sono salite dal 16 per cento del totale delle esecuzioni del 2016 al 40 per cento nel 2017.

Alcuni governi hanno anche violato una serie di divieti previsti dal diritto internazionale. In Iran sono state eseguite almeno cinque condanne a morte nei confronti di persone che al momento del reato avevano meno di 18 anni. Nei bracci della morte di questo Stato, alla fine del 2017, ve n’erano almeno altri 80. Persone con disabilità mentale o intellettuale sono state messe a morte o sono rimaste in attesa dell’esecuzione in Giappone, Maldive, Pakistan, Singapore e Usa. Amnesty ha registrato anche parecchi casi di persone condannate a morte dopo aver «confessato» reati a seguito di maltrattamenti e torture: in Arabia Saudita, Bahrein, Cina, Iran e Iraq. In questi ultimi due paesi, alcune di queste «confessioni» sono state trasmesse in televisione. «Negli ultimi 40 anni abbiamo assistito a mutamenti positivi rispetto alluso globale della pena di morte – conclude Shetty -, ma occorrono altre misure urgenti per fermare l’orribile pratica dell’omicidio di Stato». «La pena di morte è il sintomo di una cultura di violenza, non la soluzione per fermarla».