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Patton, «pace solo con una reciproca comprensione»
Il Custode di Terra Santa padre Patton, durante un incontro a Grosseto, ha sottolineato l'importanza della dottrina sociale della Chiesa come strumento per influenzare positivamente le politiche dei Paesi in crisi, come Israele, Palestina, Siria e Libano. Patton ha anche espresso il dolore per la drammatica riduzione della presenza cristiana nella regione, spesso ignorata dall'Occidente, e ha condiviso la sua speranza in una tregua duratura che possa dare sollievo alla popolazione

Ai pochi cristiani che coraggiosamente hanno scelto di non abbandonare il loro Paese, la Siria, Israele, la Palestina, il Libano il custode di Terra Santa, p. Francesco Patton, manda un messaggio: «I vescovi cattolici, sia in Israele, sia in Palestina e Libano, sia in Giordania e Siria hanno sempre insistito molto sulla necessità di approfondire coi cristiani la dottrina sociale della Chiesa. Attraverso di essa, infatti, si possono mettere sul piatto dell’organizzazione di uno Stato e della sua realtà politica alcuni valori che sono fondamentali, ad esempio il valore della partecipazione collegato a quello del bene comune. La dottrina sociale è una miniera d’ispirazione per i cristiani che vogliono dare un contributo anche politico ai loro Paesi, perché essa non riflette semplicemente il modello occidentale di democrazia, ma una visione e una serie di valori che possono essere incarnati anche in forme diverse di Stato».
Un appello che padre Patton ha lanciato da Grosseto, dove lo scorso 20 dicembre ha tenuto un incontro pubblico e animato una serata di preghiera per la pace in Terra Santa, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario dal ritorno dei francescani nel capoluogo maremmano. La situazione in costante mutamento che sta interessando Israele, Palestina, Siria e il Medioriente in genere chiede, infatti, che i cristiani – minoranza ovunque – non se ne stiano in disparte, ma partecipino e incidano. Un po’ come accadde – se il paragone ci è consentito – in Italia subito dopo la Seconda guerra mondiale, quando il contributo dei cattolici alla ricostruzione e alla stesura della Costituzione furono decisivi anche per pacificare la popolazione.
Ma la riflessione di padre Patton ha spaziato su più fronti. Soprattutto, il custode ha dato voce al grido di dolore che arriva dalla terra di Gesù, dove i cristiani spesso, per l’occidente, sembrano quasi invisibili. «I cristiani di Terra Santa – ha detto – sono sostenuti pochissimo, perché il mondo occidentale il più delle volte neanche sa che ci sono cristiani in Terra Santa. Andando in giro a parlare, la gente mi guarda con gli occhi sgranati pensando che in Terra Santa vivano solo musulmani o solo ebrei. E invece i cristiani ci sono! Il cristianesimo è nato lì, tra Palestina e Israele, ma si è sviluppato in Siria e in Libano ed è dalla Siria che è partito verso l’Europa come verso il mondo asiatico. Quella è la culla del cristianesimo, ma purtroppo dalla gran parte del mondo occidentale è ignorata. Questo ha permesso anche che soprattutto le guerre degli ultimi decenni decimassero la presenza dei cristiani riducendola al minimo, perché i cristiani, laddove ci sono state le guerre, essendo una delle minoranze più piccole, il più delle volte si sono trovati davanti all’alternativa fra morire o fuggire».
Patton è arrivato in Terra Santa come custode nove anni fa. Ha dovuto gestire il Covid e adesso i conflitti che dal 7 ottobre 2023 sembrano aver stretto tutta quell’area del mondo in una ennesima morsa. Eppure serenamente confida che «quella in Terra Santa è stata l’esperienza umanamente più arricchente di tutta la mia vita. Anche dal punto di vista francescano: vivo con fratelli che arrivano da 60 nazioni diverse e questo mi fa sperimentare continuamente una caratteristica specifica della spiritualità francescana: la fraternità universale».
I francescani hanno un punto di osservazione molto ampio in Terra Santa proprio per la loro capacità, tipica del loro carisma, di mettersi in dialogo con tutti. Ed è per questo che, rispetto ai timidi spiragli di tregua che – almeno dai racconti di stampa – sembrano affiorare in questo momento, padre Patton risponde con grande lucidità. «Una tregua c’è già stata, quella in Libano, e ha avuto immediatamente effetti positivi e benefici. Non è ancora una tregua al 100 per 100, ci sono ancora molti problemi sul terreno, ma è già un passo in avanti. Io spero vivamente che arrivi anche la tregua a Gaza e spero che arrivi, non prima del 20 gennaio come chiede il presidente Trump, ma prima… e spero che questa tregua permetta, da un lato, di liberare gli ostaggi, dall’altro alla gente di Gaza di vivere senza il timore di vedersi crollare il mondo addosso. Credo che per arrivare, poi, a far passi ulteriori sia necessario del tempo, facendo attenzione anche a tutto ciò che succede in Cisgiordania, dove c’è una fortissima pressione dei coloni verso la popolazione palestinese; bisogna che ci sia una qualche pressione per cambiare il passo all’interno di tutta la realtà locale».
Ma c’è qualcos’altro che, secondo il Custode, è fondamentale. E si tratta di qualcosa che né trattati di pace, né tregue militari, né la diplomazia possono dare. E per spiegare cos’è, cita una donna «la cui posizione, nel corso di quest’anno, è stata illuminante», dice. È la portavoce delle famiglie degli ostaggi. Si chiama Rachel Goldberg-Polin, è un’ebrea americana, che ha perso un figlio, Hersh, 23 anni, rapito il 7 ottobre e ucciso, assieme ad altri prigionieri, nell’agosto successivo. «Questa donna, che non ha mai cambiato posizione neanche dopo aver perso il figlio, ha detto una cosa per me fondamentale – ricorda Patton -: non bisogna mettere in competizione il dolore degli uni e degli altri. Lei dice che le lacrime hanno tutte lo stesso peso. Ma ha detto anche un’altra cosa, che è la via da percorrere per poter, un domani, arrivare a una pace più profonda: bisogna che noi (ebrei israeliani) impariamo a riconoscere la loro (dei palestinesi) sofferenza e che loro imparino a riconoscere la nostra sofferenza. Bisogna, insomma, che nessuno resti chiuso nel proprio dolore, perché il dolore corrode o fa esplodere in rabbia e violenza. Questa santa donna – conclude Patton – ci sta dicendo, invece, che la propria sofferenza deve portare a capire l’altro e per questa via, forse, un domani riusciremo ad accettare il diritto all’esistenza gli uni degli altri, a vivere in pace, a riconciliarci e a trovare la forma di organizzazione politica concreta per poter vivere insieme senza continuare a odiarsi e a cercare di eliminarsi. Per me questa è la vita da percorrere: è la via della compassione, dell’empatia, del riconoscere una dignità all’altro, proprio perché l’altro soffre come me».