Vita Chiesa
Pastorale giovanile: educatori non si nasce, si diventa
«La cura e l’attesa. Il buon educatore e la comunità cristiana»: è questo il tema del XV convegno nazionale di pastorale giovanile che si svolgerà a Bologna dal 20 al 23 febbraio. Obiettivo del convegno è «capire il ruolo centrale della figura dell’educatore che non è un solitario che va per la sua strada ma si costruisce attraverso un sistema educativo integrato a più voci: ha ricevuto un mandato educativo dalla comunità cristiana che, a sua volta, lo sostiene e lo forma; con la comunità, con il territorio, con gli altri educatori ha bisogno di intrecciare sogni e progetti. Si tratta di un percorso graduale che può prevedere il passaggio dal fare l’animatore all’essere educatore». Il convegno arriva dopo la Gmg di Cracovia (luglio 2016) e si colloca nel cammino verso il Sinodo dei vescovi che nel 2018 affronterà il tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». A don Michele Falabretti, responsabile del Servizio nazionale per la pastorale giovanile, promotore dell’evento, abbiamo rivolto alcune domande.
Questo convegno, in continuità con quelli di Genova (2014) e di Brindisi (2016), pone attenzione sugli educatori. La cura delle nuove generazioni chiede sempre più dei punti di riferimento che la contemporaneità riesce a dare con sempre più difficoltà…
«Al convegno di Bologna partiamo con gli educatori, consapevoli che non è un punto di partenza assoluto: avremmo potuto partire dai giovani e dalle loro diverse età di vita. Ma partiamo da qui perché le due grandi esperienze del 2016 (il Giubileo dei ragazzi e la Gmg di Cracovia), ci hanno rivelato l’importanza di costruire percorsi di accompagnamento. C’è bisogno di persone disponibili e competenti che sappiano tessere relazioni educative buone. C’è bisogno di fare alleanza e di fare squadra: fra educatori di uno stesso contesto, fra educatori che appartengono allo stesso territorio ma anche a diverse agenzie educative; fra educatori, famiglie e comunità. Nessun educatore può pensare di potersi muovere da solo, l’azione educativa non può essere un monologo. La pluralità fa crescere».
La sfida educativa riguarda più gli adulti che sono andati in crisi che i giovani?
«È andato in crisi anzitutto il cuore degli adulti. Non è la prima volta che attraversiamo tempi difficili; forse il dopoguerra è stato un tempo davvero di fame e di miseria, più difficile della crisi economica che stiamo affrontando. La vera differenza sono proprio gli adulti (nonni e genitori): allora formavano un popolo in missione che non aveva paura di dire “voglio lavorare perché i miei figli non passino ciò che abbiamo vissuto noi”. Ma oggi no: adulti e anziani non si sognano neanche lontanamente di rinunciare alla propria posizione. Il mito “dell’uomo che si è fatto da solo” li sta costringendo a ripiegarsi solo sui propri diritti ormai conquistati, ma che non sappiamo fino a quando riusciremo a garantire. Non è difficile vedere una fragilità che, certamente, assume i tratti della precarietà, dell’incertezza lavorativa e sociale, e che si trasforma in vulnerabilità del vivere. Gli adolescenti avvertono questo clima: sentono i racconti delle fatiche e delle scelte di chi giovane, appena avanti a loro, cerca la strada. Oggi un adolescente e un giovane rischiano di guardare al proprio futuro come una minaccia che incombe».
Il problema giovanile dipende anche da adulti che non vogliono fare spazio. Come se ne esce?
«La comunità deve farsi carico dei giovani. La situazione è drammatica ma se ne viene fuori insieme. Di educatori che sanno suonare la chitarra e che sorridono ma non riescono a cogliere i problemi reali dei giovani non sappiamo che farcene. È urgente ridisegnare la figura dell’educatore. Educatori non si nasce, si diventa».
Sì, ma come?
«Attivando quelle alleanze di cui parlavo poco fa, fra educatori, famiglie e comunità. Queste alleanze sono sane, perché aiutano l’educatore a sentirsi costantemente a servizio della Chiesa e delle persone. Ma sono anche difficili, perché chiedono uno stile condiviso e interpellano gli adulti di ogni comunità. Le competenze vanno formate: questo richiede tempo e risorse, intelligenza, cuore, conoscenze. Parlando di educatori torna al centro dell’attenzione l’idea che la Chiesa genera alla fede ogni volta che celebra i sacramenti, che annuncia e tesse relazioni di carità. Ma questo non significa – ancora – generare a una “vita di fede”. Per la quale c’è bisogno di incrociare seriamente la libertà delle persone che non va immediatamente «guidata», ma va anzitutto interpellata e provocata. Così si diventa educatori. Mi auguro che questo convegno riesca ad offrici non soluzioni immediate ma il gusto di scoprire quali cose vanno custodite nel cuore e fatte crescere. Solo così le nostre competenze educative diventeranno espressione del cuore del Pastore buono».
Il programma del convegno
I lavori saranno aperti dallo psichiatra Vittorino Andreoli con una relazione (20 febbraio) su «Quale adulto per una educazione possibile?», cui seguiranno (21 febbraio) gli interventi di monsignor Erio Castellucci, vescovo di Modena, su «Generare la fede, generare una vita di fede», e di Chiara Scardicchio, docente di pedagogia sperimentale, su «Educatore e educatori: ritratto di una figura sempre in ricerca».
Il 23 febbraio, Nando Pagnoncelli, presidente di Ipsos, presenterà la ricerca Ipsos sugli oratori italiani, cui seguirà una comunicazione sul Sinodo sui giovani. Il convegno, cui sono iscritti oltre 650 delegati da tutta Italia, prevede anche tavoli di lavoro, una visita a Ravenna, e si chiuderà con un pellegrinaggio alla Madonna di san Luca dove monsignor Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, celebrerà la messa finale.