Cultura & Società
Pasqua, campane di primavera
di Carlo Lapucci
Il significato attribuito al suono della campana, e quindi il suo simbolo, si comprendono meglio se si pensa all’effetto prodotto da un colpo isolato di gong: la forza che colpisce il metallo spande nell’aria un diluvio di vibrazioni concentriche le quali pervadono completamente il luogo, si espandono attivando risonanze ed echi su tutte le cose che toccano. Nello spazio avviene in forma sferica quello che si produce in uno specchio d’acqua quando un corpo ne colpisce la superficie: un propagarsi di onde che si dilatano in cerchi sempre più ampi, prima marcati e profondi, poi sempre più tenui fino a disperdersi e scomparire. Questo è in maniera schematica il comportamento di ogni suono, ma quello della campana è particolare, così chiaro ed evidente da diventare il simbolo della voce, del canto, del richiamo, dell’invocazione, della preghiera, dell’orecchio stesso perché a sua volta la campana, colpita da un altro suono, risponde entrando in risonanza.
Questo suono profondo che sprigiona da una materia inerte, quale è creduta quella del metallo, affascina, incanta, tocca strati profondi della realtà interiore attivando una serie di analogie, di allusioni, di suggestioni che fanno della voce della campana qualcosa di magico e poi anche di spirituale. Il suo suono si estende come una forza benefica, una benedizione che si apre ad abbracciare le cose circostanti, una forza che attiva pensieri, smuove cose morte, le fa vibrare, vivere, traendo da loro l’energia nascosta, avvolge tutto in una emanazione vitale. Per questo la campana è detta la voce di Dio un suono che esce dal mistero del mondo e parla senza parole, risveglia, accarezza, stimola, chiama. L’espressione si adatta anche alla sua funzione pratica di chiamare i fedeli alla chiesa, ma il primo senso è il più comune e profondo.
Talvolta la campana è considerata come immagine della voce dell’uomo, ovvero l’emblema della sua realtà materiale che trae da se la voce e chiama, parla, si esprime, prega. La voce, come la luce corre gli spazi infiniti, non si ferma là dove la perdono i sensi, ma prosegue il suo cammino fino a raggiungere il trono di Dio e con la sua fede santifica il mondo che pervade.
Quindi il suono dei bronzi è come un’esplosione che si sprigiona dal buio della materia e irradia intorno la vita e quindi gioia e speranza. Non c’è migliore metafora per la luce di Cristo che sfolgora dal buio del sepolcro, esce nella realtà del mondo ed invade di nuova vitalità l’esistenza languente per il peccato:
Oltre al valore spirituale l’esplosione del suono esprime e si fa emblema della vita naturale che prorompe dal buio della terra e con la forza della germinazione torna nella luce e copre il mondo di splendore. Così le campane col loro squillo potente a Pasqua annodano perfettamente l’anelito, la preghiera dell’uomo che invoca la salvezza, la resurrezione di Cristo che esce dal sepolcro, vita e salute del mondo e la rinascita della natura nella vegetazione che ritorna nel ciclo della terra a portare di nuovo alimento, vita e bellezza.
Oggi che con l’ipotesi del Big-bang si tenta di spiegare l’origine naturale del mondo e l’immagine di un Universo in espansione, il colpo del battaglio sulla campana assume anche il valore simbolico dell’energia creatrice che da un punto infinitesimo squaderna la realtà universale. L’idea non è estranea neppure al mondo religioso per raffigurare la creazione divina, infatti nell’Induismo il suono del bronzo percosso è simbolo della vibrazione primordiale che attiva la vita.
Con questo si viene a toccare un tema antico e persistente relativo alle campane che è strettamente connesso con la magia, ma ha riflessi anche nella visione religiosa e paradossalmente anche con la dimensione scientifica. L’impiego delle campane contro la pioggia, la grandine e i fulmini ha radici remote, ma è stato comune fino a non molti anni fa: sonare a mal’acqua. Il principio elementare che regola questo uso è che il suono è nemico degli spiriti impuri e delle forze negative, per cui i campanelli hanno avuto sempre valore di purificazione, quasi che streghe, diavoli, spiriti di defunti, folletti e altro vengano messi in fuga e allontanati dallo squillare del metallo. Anche gli altri rumori hanno lo stesso potere e tale è quello del tamburo: le stamburate che ancora risuonano nelle feste locali oggi sono intese come innocenti manifestazioni d’allegria, ma tali non erano quando i cortei attraversavano le campagne, tanto che è arrivata fino a noi l’usanza d’andare nei mattini di marzo a suonare campanelli lungo i campi dove crescono le messi, oppure a suonare e schiamazzare con coperchi, stagne e bidoni, o anche portare nella notte in giro delle fiaccole per la campagna (far lume a marzo) nella convinzione di fugare gli spiriti maligni nocivi alla crescita del grano e degli altri raccolti.
La credenza che i diavoli vivessero nei fulmini, si annidassero nei mulinelli del vento, cavalcassero le nuvole e le comete, conducessero le schiere dei nembi a mettere a soqquadro intere plaghe della terra non è ancora scomparsa e, a vedere la malignità con la quale talvolta gli elementi naturali si scatenano contro la vita, l’uomo e le sue opere, verrebbe ancora da pensarlo.
Per questo era opinione che la campana stendesse la sua protezione sullo spazio per quanto arrivava il suo suono ed è anche per ampliare questa zona che si tendeva a fare alti i campanili, fatto che è stato preso poi per segno d’importanza e di forza, dando il nome a quella manifestazione di vanità che è il campanilismo.
Inconsapevolmente anche coloro che credono d’essere lontani dalle superstizioni seguono queste credenze quando legano al collo del cane o del gatto un bubbolino: l’uso di attaccare al collo degli animali dei campani, oltre alla funzione d’indicare dove si trovano in caso di smarrimento, ha motivo nel tener lontani i malefici. Questo non è del tutto destituito di fondamento: per le bestie grosse pare che i lupi siano tenuti a bada dal suono del campano che portano al collo a patto che le belve non siano affamate. Anche nei vecchi campanelli di casa, che si tiravano col filo, era di solito impressa un’immagine sacra, spesso della Madonna, oppure vi si incideva una formula sacra o di scongiuro.
Anche l’idea diffusa nella scienza antica che le vibrazioni dell’aria, provocate da quelle del bronzo squillante abbia il potere di cacciare le nuvole e la grandine pare che non sia del tutto destituita di fondamento, per quanto possa essere minima l’efficacia. Oggi contro tali fenomeni si sparano cannonate capaci di alterare il fenomeno naturale, attenuarlo e si basa sullo stesso principio. Per questo non si sbagliò del tutto Cecco d’Ascoli che scrisse in un sonetto dell’Acerba:
La Chiesa ebbe il suo da fare con tali credenze tra le quali non ultima, anche se dimenticata, fu quella dei Tempestari: maghi, talvolta demoni, altre volte sconosciuti errabondi che avevano la capacità di suscitare venti e temporali. Volavano nell’aria cavalcando i venti e ciò rivela che tale credenza può ricollegarsi al paganesimo quando si voleva che gli Dei cavalcassero i venti per i loro spostamenti. Con incantesimi i Tempestari provocavano pioggia, fulmini e grandine devastando raccolti e rovinando abitazioni. Contro i loro malefici si suonavano le campane, si benediceva col ramo d’olivo bagnato nell’acqua benedetta verso i quattro punti cardinali. La credenza è molto antica e risale al paganesimo, ma si diffuse nel Medio Evo, in particolare nel IX secolo in Francia. S. Agobardo (769-846), Vescovo di Lione dovette scrivere un trattato per combattere la superstizione: Liber contra insulsam vulgi opinionem de grandine et tonitruis. I Tempestari si giovavano d’una specie di divinità dell’aria detta Aura Legatizia: distruggevano le messi portandole spesso con i turbini in una regione lontana quanto sconosciuta detta Magonia, traendone ottimi vantaggi. Per questo i Tempestari erano detti anche Magonesi: i contadini, dopo le devastazioni d’una bufera, battevano le campagne armati di forche e bastoni alla ricerca dei Magonesi. Talvolta trovavano un povero vagabondo rimasto sotto la pioggia senza riparo e lo conciavano per le feste.
Sant’Agostino nella Città di Dio (VIII, 19) descrive diffusamente e condanna l’incantesimo: «questa scienza funesta e scellerata che, dicono, offriva i mezzi di trasportare i raccolti di uno nel campo di un altro». Ma si dovette venire a patti con la superstizione santificando con un uso innocente di sonare le campane che, se con cacciava i Tempestari, cacciava la paura dei contadini.
Da allora la campana si è diffusa ed è diventata un elemento costante della chiesa insieme al campanile, nonché un simbolo.
Fu lui che introdusse l’uso della campana, già ben conosciuta, per scopi liturgici riprendendo quanto si faceva nelle comunità monastiche per regolare la vita in comune e chiamare alle varie funzioni della giornata: riti, lavoro, pasti. Talvolta non si trattava di vere e proprie campane: le comunità più povere si servivano di una tegola tenuta sospesa da una corda che veniva percossa con una mazza e tale uso è rimasto a lungo dato che una campana, anche piccola, non è cosa che costi poco.
In seguito la tecnica campanaria di fusione progredì costantemente creando una tavola, sintetizzata su un bastione detto verga di Giacobbe con il quale i fonditori regolavano la grandezza, il profilo, le varie dimensioni, lo spessore del metallo in modo da ottenere un suono armonioso, poi anche una nota precisa che potesse armonizzarsi con le altre formando così il concerto di campane.
Il metallo da sempre impiegato è il bronzo (sono dette appunto i sacri bronzi). La lega è fissata nelle proporzioni di sessantotto parti di rame e ventidue di stagno. Usava aggiungere anche una certa percentuale d’argento, cosa che rendeva il suono argentino e squillante; furono fatte nell’Ottocento anche campane d’acciaio, ma non hanno avuto seguito, anche perché per chiamarle i sacri acciai ci voleva coraggio.
Nemica delle campane fu la Rivoluzione francese che le sterminò dal territorio nazionale per fabbricarci cannoni, tanto che in Francia oggi non si trova più una campana anteriore agli anni del Terrore. Altrove invece si cercò di ottenere la campana più grande del mondo e vi riuscì la Russia dove lo Zar Boris Godunov fece costruire un campanone detto Zar Kolokol: imperatore delle campane. Era quattro metri di diametro, 50 centimetri di spessore, dodici metri e mezzo di circonferen-za e 1900 quintali. Si ruppe e fu rifusa un po’ più piccola nel 1654. Anche questa fu rovinata da un incendio e venne ancora rifusa nel 1733, ma si ruppe la trave di sostegno e cadde rompendosi nell’orlo, così nel 1837 lo Zar Nicola I la sistemò su un piedistallo. Pesa 1850 quintali.
La leggenda della campana sepolta si trova in varie località, con particolari diversi. In genere si tratta d’una campana che, per varie ragioni (allagamenti, terremoti), essendo rimasta sotto terra o sott’acqua, continua a suonare. Questo si dice, ad esempio, presso Aosta, intorno alla zona dove fu il paese distrutto di Thora: la sera e la domenica mattina, verso Belun e Vermian, accostando un orecchio a terra o a una parete di roccia, si ode il suono d’una campana. Si vuole che sia la campana dell’antico paese, la quale continua a suonare per le ombre dei morti che il cataclisma confinò sotto terra, dove il villaggio prosegue la sua vita d’un tempo, nelle tenebre del mondo sotterraneo.