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Parlamentari eletti o nominati?

DI MAURO BANCHINIC’è un aspetto, nelle elezioni, che preoccupa: il sistema elettorale scelto dal governo uscente (per una chiara motivazione di ordine politico: rendere meno catastrofica la sconfitta di chi perde e meno trionfale la vittoria di chi vince per precostituire facile terreno per chissà quali pateracchi successivi), quel sistema impedisce anche una qualunque espressione di preferenza da parte dei cittadini.

Come accaduto in Toscana alle ultime regionali (quando questo giornale si «divertì», mesi prima, a indovinare l’esatta composizione della nuova aula consiliare), anche stavolta potrà essere semplice calcolare in anticipo gli eletti. Basta guardare l’ordine di lista.

Dunque chi decide se un candidato sarà eletto? Il giudizio degli elettori? No: le segreterie dei partiti. Il compito di scegliere la composizione del nuovo Parlamento non è affidato al popolo ma a poche (cento?) persone in tutta Italia: quelli che stanno componendo l’ordine di lista. Sfugge il motivo per cui dopo il bel successo delle primarie del centro-sinistra – almeno in quella coalizione, almeno in Toscana – nessun partito abbia ripetuto, per la scelta dei suoi candidati, un’esperienza di primarie. Un mistero!

C’è un corollario non lieve: il compito di cercare i voti, di bussare porta-a-porta per convincere gli indecisi o confermare i decisi, chi lo assume? Non c’è il rischo che «corrano» soltanto i due o tre collocati in posizione mediana fra i «sicuri-sicuri» e i «perdenti-perdenti»? E come fanno, in collegi regionali, a cercarsi i voti? Non finirà che tutta la campagna sarà affidata allo scontro mediatico, inevitabilmente semplificatorio e populista, Prodi/Berlusconi, alle battute televisive dei numeri due/tre in ambito nazionale? E i partiti, così, non completano la traiettoria verso semplici comitati elettorali che si attivano solo prima di una elezione per poi tornare nel letargo?

Siamo ancora in presenza di «eletti» oppure le aule parlamentari saranno affollate da nominati? Differenza non terminologica, ma tale da farci riflettere sul senso della democrazia rappresentativa.

C’è un altro aspetto che riguarda il voto dei cattolici e che ha a che fare con il realistico termine di mons. Simoni all’ultimo incontro di CSC sui rospi da ingoiare. Se per un motivo di compensazione generale, in collegi senatoriali regionali, in uno dei partiti politici teoricamente di possibile scelta per un elettorato cattolico, l’ordine dei fortunati viene fuori escludendo – nei primi posti – candidati chiaramente riconoscibili come appartenenti all’area cattolica, che accade?

Accade che l’area cattolica di quello schieramento non trova un suo punto di riferimento di possibile elezione, al di là di quelli collocati nei posti bassi della classifica (e dunque candidati «di servizio»). Ne trova certo altri, dello stesso partito ma di «petali» diversi e ovviamente – per qualcuno, forse per molti – non è la stessa cosa. Il rischio? Del tutto evidente.

E così il «Seggiolotto» le ha azzeccate tutte (o quasi)