Vita Chiesa
Parla il salesiano rapito in Yemen: «Mai maltrattato, ho pregato tanto»
Don Tom Uzhunallil è un indiano gentile che non ha perso il senso dell’ironia e il buonumore nonostante la drammatica vicenda che lo ha visto protagonista. Per 18 mesi è stato nelle mani di un gruppo di sequestratori che lo hanno rapito dopo aver fatto irruzione il 4 marzo 2016 nella casa delle Missionarie della Carità, ad Aden, nello Yemen, in piena guerra civile. «Lì ci sentivamo al sicuro». Invece il commando armato uccide 16 persone, tra cui quattro suore Missionarie della Carità e risparmia lui. «Forse perché ero indiano, straniero, per soldi».
Il 12 settembre è stato liberato a sorpresa e portato in Oman, il 13 settembre ha incontrato Papa Francesco. Oggi ha potuto raccontare per due lunghe ore, nella sede centrale dei salesiani a Roma, la sua vicenda. Con serenità, forza interiore e grande commozione al ricordo delle quattro religiose di Madre Teresa uccise insieme al personale yemenita. Dopo i controlli medici e il rinnovo del passaporto tornerà in India, dove resterà.
«Dio è stato molto gentile con me». Ha detto don Tom Uzhunallil, esplodendo in un pianto di commozione condiviso dalle tante religiose Missionarie della Carità presenti in sala. «È troppo presto per parlare delle suore devo aspettare di essere più calmo». Don Tom, 59 anni, è dimagrito 30 chili durante la detenzione forzata, ma ha ripetuto più volte di non aver mai subito violenza ne mai è stato minacciato o forzato a convertirsi all’Islam. «Mi hanno dato sempre cibo e medicine per curare il mio diabete – ha raccontato -. Passavo il mio tempo a pregare per tutti, soprattutto per le suore e gli altri yemeniti uccisi, a fare esercizi per tenere allenata la mente («contavo i secondi della mia vita«) e il corpo, a volte riuscivo anche a celebrare spiritualmente la messa, anche se non avevo il pane e il vino. E ogni tanto leggevo il Corano in inglese che mi aveva regalato un conoscente».
Il rapimento: «Mai avuto paura». Quando il commando è entrato nella casa delle Missionarie della Carità hanno fatto sedere don Tom in un angolo, «forse perché si sono resi conto che ero indiano, straniero, quindi potevano chiedere soldi». Poi l’hanno rinchiuso nel bagagliaio di una macchina insieme al tabernacolo e ad altri oggetti che avevano rubato nella cappella. «Non ho mai avuto paura – ha sottolineato più volte – e sono sempre stato sereno. Mi sono detto: senza il volere di Dio nulla può succedermi, neanche un capello potrà essermi torto se Dio non vuole. Questo mi ha dato la forza. Ogni giorno ringraziavo prima di dormire e quando mi svegliavo dicevo: Dio dammi la forza di vivere questo giorno». All’inizio era bendato, poi, durante la prigionia – è stato spostato in quattro luoghi diversi – ha sempre visto in faccia i suoi rapitori, che gli hanno perfino messo a disposizione un medico e l’insulina e le medicine per il diabete, difficilissime da reperire in un Paese in guerra come lo Yemen. «Quando hanno girato i video con i miei appelli sembrava che mi maltrattassero – ha spiegato -. In realtà mi hanno detto di fingere per avere risposte più rapide e suscitare interesse».
La liberazione, nascosto in un burka in Oman. Don Tom ha poi raccontato nei dettagli il momento della sua liberazione: «Il giorno prima uno dei miei sequestratori mi ha detto: ‘Abbiamo buone notizie per te. Ti mandiamo a casa’». Gli restituiscono gli stessi pantaloni che aveva 18 mesi prima con una cintura (nonostante avesse perso nel frattempo 30 chili), gli fanno fare una doccia e lo conducono in macchina con altre 3 persone in una località a tre o quattro ore di viaggio. Aspettano ma qualcosa va storto, perché tornano indietro. «Mi hanno detto: ‘Forse hai pregato solo il tuo terzo Dio, prova a pregare il secondo’. Questo perché non capiscono bene la Trinità», ha spiegato don Tom, che non ha perso il senso dell’ironia e racconta in continuazione aneddoti. Lo riportano nella casa dove è recluso e nel cuore della notte lo svegliano. Stavolta gli fanno indossare un burka sopra i suoi abiti e di nuovo lo infilano in un’automobile con tre persone. «Siamo arrivati nello stesso posto del giorno prima – ha detto – e abbiamo aspettato due ore». Fino all’arrivo dei suoi liberatori. «Un uomo mi ha preso la mano, ha controllato la foto se fossi io e abbiamo viaggiato fino alla mattina dopo nel deserto. Ho capito solo dopo che ho passato la frontiera dello Yemen ed ero in Oman». Qui è stato accolto dalle autorità che gli hanno dato abiti, una valigia e un rasoio per radere una lunga barba di 18 mesi. Il giorno dopo era a Roma dal Papa.
«Senza questa avventura – ha concluso con un sorriso – non lo avrei mai visto di persona. Non sono stato capace di dirgli le parole giuste perché ero molto commosso. Papa Francesco mi ha baciato le mani e benedetto e mi sono sentito indegno. So che ha pregato per me».
Il Rettor maggiore p. Artime, «telefonata inaspettata». «Non sappiamo se sia stato pagato un riscatto e chi abbia reso possibile la liberazione. Io ero a Malta quando ci hanno chiamato per dirci che padre Tom era su un aereo dell’Oman che lo avrebbe portato a Fiumicino»: così il Rettor maggior dei salesiani padre Angel Fernandez Artime: «Non sappiamo come sono stati i movimenti: non ci aspettavamo nulla fino al momento in cui abbiamo ricevuto la telefonata».