Cultura & Società
Papini, la doppia anima di un umile vanitoso
Questa ideasentimento connaturato che Sartre doveva strappare da sé, era più o meno, mi pare, quello che nutriva Papini ai tempi del suo dichiarato ateismo quando in una lettera del maggio 1919 a Domenico Giuliotti scriveva (i due si davano ancora al lei): «Io sono, l’avrà indovinato, un religioso senza religione, un mistico senza Dio… Mi attira prepotentemente l’uomo di fede, di vera fede, che non sia uno sciocco né un mediocre, anche se non posso ripetere con la stessa fermezza le Sue parole. Ma forse potremo in seguito morire con la stessa speranza».
Ma penetrare in questi meandri della coscienza è come compiere un salto nel buio e forse dovrei usare più che la penna del saggista quella dell’arte narrativa che meglio lambisce l’ineffabile.
D’altra parte sulla conversione di Papini si è già scritto molto. Anche per questo preferisco aggiungere come la vissero i giovani di allora, tra cui appunto, il sottoscritto, quando pur giovanissimo, ebbi con lui tre o quattro incontri. Ho anche alcune sue lettere confidenziali dove ad esempio mi dava spiegazioni della sua vicenda durante il passaggio del fronte.
Oltre la mia c’è poi la testimonianza diretta di altri giovani di allora, tra cui un mio amico pistoiese e due miei amici fiorentini: questi due furono vicinissimi a Papini, entrambi mi parlavano, e hanno poi anche scritto, di quella sua conversione. Papini mi parlò, ricordo, anche di un giovane col quale pure avrei potuto prendere accordi per fare la rivista che avevo in mente, «un certo Spadolini», mi disse, che ogni tanto riceveva nella sua casa di via Guerrazzi 10.
Il libro che di più allora mi aveva portato nella sua casa, con in mano un mio diario e un romanzo dattiloscritti che avrei voluto fargli leggere, non era stato eravamo, credo, nel 1941- 42 la Storia di Cristo, ad esempio, o le Lettere di Celestino Sesto bensì certe pagine di Poesia in prosa, e soprattutto, facile immaginarlo per un giovane voglioso di costruirmi anch’io da me stesso, Un uomo finito.
Anch’io ero in lotta per trovare me stesso e la verità, anch’io entravo nella chiese per «cercarvi Dio» come dice lui. A pag. 254 di quel libro esprime che era mosso da «qualcosa di ambiguo. Il bisogno di credere, di tornar fanciullo, di sentirmi in comunione con la cristianità dalla quale ero uscito, si agitava sommessamente in me, senza volersi decidere».
Ma il primo cenno della sua inquietudine cristiana era ancora più indietro. Me ne dava testimonianza un altro giovane mio amico, Mario Gozzini gran frequentatore di Papini in quegli anni che ricordava tutta una serie di suoi articoli nei quali traspare di Papini «l’uomo religioso anche quando gridava il più radicale ateismo»; ricordava in particolare di Papini l’affermazione dell’autonomia della religione in polemica con gli idealisti. Così nel saggio pubblicato in Rinnovamento del 1908 quando scriveva: «La religione, ci fa sentire un Essere infinito che si manifesta come persona, un Dio eterno e spirituale che si è fatto carne ed uomo mortale: un’anima universale che accoglie ogni anima particolare senza sopprimerla. Queste, che sono assurdità per il pensiero astratto, anche per il pensiero filosofico sviluppato da Hegel, sono realtà semplici e vissute per l’anima del santo. La vita religiosa concepisce e compie sintesi tali che sono inconcepibili e impossibili anche alla più temeraria dialettica». E Papini in altra nota allora scriveva: «Ci son sempre stati uomini non volgari che non hanno potuto trovare nella filosofia tutto ciò che essa prometteva, e che son tornati a prendere in meno il piccolo libriccino, pieno, direbbe il Croce, di immaginazione e sentimento il Vangelo ». Altrettanto nella Lettera agli Amici modernisti sempre del 1908 sintetizzando le finalità del movimento, rimproverava ai modernisti: «Nella vostra opera non c’è nessuna parte che sia rivolta, direttamente ed esclusivamente, all’accrescimento e al trionfo dell’amore sul mondo. La giustizia sociale non è ancora l’amore, la sapienza non è proprio l’amore, la voglia di libertà non sempre è l’amore…». E son parole che contengono verità sempre attuali. Infine, denunciava in un articolo sul Resto del Carlino del 1919, inserito poi, nel suo libro La scala di Giacobbe, l’assenza nel mondo di vero cristianesimo: «Non si può tornare al Vangelo perché non ci siamo ancora arrivati… Il Cristianesimo non appartiene al passato; forse gli apparterrà l’avvenire».
E qui mi soccorre anche la testimonianza di un altro giovane di allora, Carlo Ballerini, che accompagnò molto da vicino Papini facendogli da lettoresegretario, e che di questa vicinanza ha scritto recentemente in un libro di memorie intitolato Suggestioni di un manoscritto.
Ma, prima della testimonianza di Carlo Ballerini, che è stato titolare della cattedra di italiano a Nimega in Olanda e ha organizzato lassù vari convegni sulla letteratura italiana, prima di lui, voglio completare la mia testimonianza.
Vagheggiavo a Pistoia, mia città di origine, il desiderio di fare lì con alcuni compagni studenti una rivistina. I giovani d’oggi non possono certo immaginare come si trovasse un giovane di allora sotto la dittatura. In tre o quattro pensavamo a non più che un semplice ciclostilato, per il quale però occorreva sempre l’autorizzazione delle Autorità. Allora io pensai, essendomi già presentato a lui per il mio diario e il mio romanzo, di ricorrere al grande scrittore cattolico Giovanni Papini Accademico di Italia, che avrebbe potuto lui farci avere 1’autorizzazione. Tornai io stesso alla sua casa. Lui mi accolse, ascoltò il programma della rivistina ciclostilata, consentì, scrisse al ministro della Pubblica istruzione di allora, ma non avemmo mai risposta. E così la nostra rivista non poté mai uscire. Pensate, soprattutto voi giovani di oggi. Quattro ragazzi progettano un foglio, ciclostilato, e, per avere il permesso debbono rivolgersi all’Accademico d’Italia Giovanni Papini, senza ugualmente aver risposta, né dunque poter fare il foglio.
E qui cito altre fasi dell’antefatto conversione che don Aldo Pacini pure ricostruisce.
Papini, si sa, non aveva avuto alcuna educazione religiosa da ragazzo. Il padre si dichiarava ateo anche se «uomo di buonissima pasta», come Papini stesso avrebbe poi scritto; la madre lo aveva fatto battezzare di nascosto. Poi nelle sue letture aveva incontrato il Vangelo e gli altri libri sacri ma era entrato in chiesa solo per il matrimonio con Giacinta Giovagnoli, all’età di ventisei anni. Un secondo avvicinamento religioso, anzi una vera «crisi», scrive ancor oggi Aldo Pacini, lo prese dopo la prima guerra mondiale essendo rimasto a casa «spettatore per forza ma di malavoglia», com’egli scriveva, «perché riconosciuto mezzo cieco: sentivo a tratti un rimorso che non so neppure descrivere con fedeltà… rimorso di aver consigliata la guerra e, nello stesso tempo, di vederla ora tanto diversa da quel che mi aspettavo… rimorso di aver preparato anch’io, col cinismo misantropico degli ultimi anni, quell’accecamento spirituale che ora si sfogava nelle stragi. Arrivato a quella scoperta aggiunge Papini stesso parrebbe che avrei dovuto accettare, se non altro nell’ordine teoretico, la dottrina di Cristo. Nessuno al par di Cristo, ha comandato con tanta forza la povertà e l’umiltà: cioè i contrapposti assoluti di quelle due febbri, superbia e cupidigia, che struggono l’uomo. S’io fossi stato laico avrei dovuto fìn dal 1917 piegare i ginocchi alla croce». Volendo comunque anche lui dare un suo contributo di «povero infilatore di parole» prese a scrivere, all’insegna del «sincerismo» quel libro «crudo e sconsolante», com’egli lo definisce, che verrà pubblicato postumo col titolo II rapporto sugli uomini. Ma allora, intorno al 1918, quando il manoscritto era arrivato alle mille cartelle, ecco che improvvisamente in un suo diario alla data del 19 agosto 1919 si legge: «Comincio a scrivere la vita di Gesù». Aveva raggiunto ormai quel «po’ di certezza» caldamente invocata in uno degli ultimi capitoli dell’Uomo finito del 1913». Così scrive il Pacini, che cita poi i noti versi di Pane e vino, sempre di quegli anni, dove si legge: «Nella notte agostana sotto il perlato brivido/ fuori della mia tana/inginocchiato riconobbi Iddio…. «Quante ore della mia vita annoterà poi nell’altro suo libro autobiografico Seconda nascita ho passato all’ombra della mia croce a tu per tu col crocefisso» (era la croce sul colle di Bulciano). Infine nel suo diario del 1926 si legge «Oggi Sabato Santo, mi confesso per la prima volta dopo tanti anni». Poi si legge ancora il giorno di Pasqua: «Mi comunico la mattina presto a Orsanmichele».