Vita Chiesa

Papa Francesco all’Isola Tiberina: la nostra è «Chiesa di martiri»

«Siamo venuti pellegrini in questa basilica», ha sottolineato, «dove la storia antica del martirio si unisce alla memoria dei nuovi martiri, dei tanti cristiani uccisi dalle folli ideologie del secolo scorso, e uccisi solo perché discepoli di Gesù». Per il Pontefice, «il ricordo di questi testimoni antichi e recenti ci conferma nella consapevolezza che la Chiesa è Chiesa se è Chiesa di martiri». Essi, ha aggiunto, «hanno avuto la grazia di confessare Gesù fino alla fine, fino alla morte. Loro soffrono, loro danno la vita, e noi riceviamo la benedizione di Dio per la loro testimonianza». E, ha avvertito il Santo Padre, «ci sono anche tanti martiri nascosti, quegli uomini e quelle donne fedeli alla forza mite dell’amore, alla voce dello Spirito Santo, che nella vita di ogni giorno cercano di aiutare i fratelli e di amare Dio senza riserve». In realtà, ha affermato Francesco, «la causa di ogni persecuzione è l’odio del principe di questo mondo verso quanti sono stati salvati e redenti da Gesù con la sua morte e con la sua risurrezione». Gesù stesso, che è «il maestro dell’amore», ci dice: «Non spaventatevi! Il mondo vi odierà; ma sappiate che prima di voi ha odiato me».

Gesù, ha spiegato il Papa, «con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati dal potere del mondo, dal potere del diavolo, dal potere del principe di questo mondo. E l’origine dell’odio è questa: poiché noi siamo salvati da Gesù, e il principe del mondo questo non lo vuole, egli ci odia e suscita la persecuzione, che dai tempi di Gesù e della Chiesa nascente continua fino ai nostri giorni». «Quante comunità cristiane oggi sono oggetto di persecuzione!», ha esclamato, «a causa dell’odio dello spirito del mondo».

«Il martire – ha aggiunto a braccio – può essere pensato come un eroe», ma l’aspetto «fondamentale del martire è che è stato un graziato. C’è la grazia di Dio, non il coraggio, quello che ci fa martiri». Alla domanda: «Di che cosa ha bisogno oggi la Chiesa?», la risposta per il Pontefice, è «di martiri, di testimoni, cioè dei santi di tutti i giorni, perché la Chiesa la portano avanti i santi, senza di loro la Chiesa non può andare avanti. La Chiesa ha bisogno dei santi di tutti i giorni, quelli della vita ordinaria, portata avanti con coerenza; ma anche di coloro che hanno il coraggio di accettare la grazia di essere testimoni fino alla fine, fino alla morte». Tutti costoro sono «il sangue vivo della Chiesa. Sono i testimoni che portano avanti la Chiesa; quelli che attestano che Gesù è risorto, che Gesù è vivo, e lo attestano con la coerenza di vita e con la forza dello Spirito Santo che hanno ricevuto in dono».

«Vorrei oggi aggiungere una icona di più a questa chiesa. Non so il nome, ma lei ci guarda dal cielo», ha detto Papa Francesco. «Ero a Lesbo, salutavo i rifugiati e ho trovato un uomo trentenne, con tre bambini – ha raccontato -. Mi ha guardato e mi ha detto: ‘Padre, io sono musulmano, mia moglie era cristiana. Nel nostro paese sono venuti i terroristi, ci hanno chiesto la religione e hanno visto lei con il crocifisso. Le hanno chiesto di buttarlo, lei non l’ha fatto e l’hanno sgozzata davanti a me. Ci amavamo tanto’». Questa, ha aggiunto il Pontefice, «è l’icona che porto oggi qui. Non so se quell’uomo è ancora a Lesbo o è riuscito ad andare altrove, non so se è stato capace di uscire da quel campo di concentramento, perché i campi dei rifugiati, tanti, sono di concentramento per la folla di gente, lasciata lì. I popoli generosi che li accolgono devono portare avanti questo peso». Perché, ha rimarcato Il Papa, «gli accordi internazionali sembrano più importanti dei diritti umani. Quest’uomo non aveva rancore. Lui musulmano aveva questa croce del dolore portata avanti senza rancore. Si rifugiava nell’amore della moglie ‘aggraziata’ dal martirio».

«Ricordare questi testimoni della fede e pregare in questo luogo è un grande dono». Così Papa Francesco si è avviato a concludere la sua omelia . Infatti, ha osservato il Pontefice, «l’eredità viva dei martiri dona oggi a noi pace e unità. Essi ci insegnano che, con la forza dell’amore, con la mitezza, si può lottare contro la prepotenza, la violenza, la guerra e si può realizzare con pazienza la pace». Di qui l’invito a pregare così: «O Signore, rendici degni testimoni del Vangelo e del tuo amore; effondi la tua misericordia sull’umanità; rinnova la tua Chiesa, proteggi i cristiani perseguitati, concedi presto la pace al mondo intero. A Te Signore la gloria e a noi, Signore, la vergogna».

«Chiudere la porta ai migranti è un suicidio». «Pensiamo alla crudeltà, la crudeltà che oggi si accanisce sopra tanta gente, lo sfruttamento della gente… La gente che arriva in barconi e poi restano lì, nei Paesi generosi, come l’Italia, la Grecia, che li accolgono, ma poi i trattati internazionali non lasciano… Se in Italia si accogliessero due migranti per municipio, ci sarebbe posto per tutti». Così Papa Francesco, prima di andare via dalla basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina. E, ha proseguito Francesco, «questa generosità del Sud, di Lampedusa, della Sicilia, di Lesbo possa contagiare un po’ il Nord. È vero: noi siamo una civiltà che non fa figli, ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio».

Durante la visita alla basilica di San Bartolomeo all’Isola, luogo memoriale dei «Nuovi Martiri», Papa Francesco ha anche benedetto una piccola scultura di legno dipinto, raffigurante una colomba, che proviene dall’iconostasi di un’antica chiesa di Aleppo, bombardata durante l’assedio della città. A porgerla al Pontefice, un rifugiato siriano di Aleppo, giunto in Italia attraverso i corridoi umanitari. Dopo la benedezione del Papa, la colomba è stata posta sull’altare della cappella che custodisce le memorie dei martiri dell’Asia e del Medio Oriente. Al termine della sua visita alla basilica di San Bartolomeo all’Isola, il Santo Padre ha incontrato un gruppo di rifugiati accolti dalla Comunità di Sant’Egidio. Tra questi, Tadese Fisaha, giovane eritreo sopravvissuto di Lampedusa, che ha donato al Papa una cartolina raffigurante i volti delle vittime del terribile naufragio del 3 ottobre 2013.

Durante la preghiera per i «nuovi martiri», alla presenza di Papa Francesco, erano state presentate alcune testimonianze. Eccole in sintesi.

Karl A. Schneider (figlio di Paul), «noi tutti, anche oggi, facciamo troppi compromessi. Mio padre è rimasto fedele solo al Signore»

«Mio padre è stato assassinato nel 1939 nel campo di concentramento di Buchenwald perché per lui gli obiettivi del nazionalsocialismo erano inconciliabili con le parole della Bibbia». È iniziata così la testimonianza di Karl A. Schneider, figlio di Paul Schneider, pastore della Chiesa Riformata, ucciso il 18 luglio 1939. «La Chiesa – ha osservato Karl A. Schneider – ha il compito di vigilare sullo Stato. Con questa convinzione mio padre si è opposto con forza ad ogni tentativo di influenzare politicamente la Chiesa. Si è impegnato perché il popolo tedesco conservasse un orientamento cristiano nello Stato e nella società». Secondo il figlio di Paul, «noi tutti, anche oggi, facciamo troppi compromessi, ma mio padre è rimasto fedele unicamente al Signore e alla fede. È stato un pastore e una guida spirituale. Anche nel campo di concentramento! Fino alla fine, ogni volta che gli era possibile, nonostante le torture e le sofferenze, ha gridato con coraggio dalla feritoia della sua cella nel bunker le parole di consolazione e di speranza della Bibbia agli altri prigionieri». Per questo, ha ricordato Karl, «viene chiamato anche il ‘predicatore di Buchenwald’». E, ha aggiunto il figlio, «non ha dimenticato noi, la sua famiglia. In una lettera dal campo di concentramento, conservata in questa chiesa, mio padre afferma con forza la sua fede nella vittoria pasquale della vita e scrive di sapere che anche mia madre, io, i miei fratelli e le mie sorelle siamo sotto la protezione di Dio. Le parole di mia madre, anche quando era molto anziana, sono state: ‘Lui è stato scelto per annunciare il Vangelo e questa è la mia consolazione’». «Io, come figlio, sento questa consolazione fino ad oggi», ha concluso.

Roselyne Hamel (sorella di padre Jacques), «possa il sacrificio di mio fratello aiutare gli uomini a vivere insieme in pace»

«Possa il sacrificio di Jacques portare dei frutti, perché gli uomini e le donne del nostro tempo possano trovare la via per vivere insieme in pace». Lo ha detto, Roselyne Hamel, sorella di padre Jacques, ucciso a Rouen, il 26 luglio 2016, alla fine della messa da lui appena celebrata. «Jacques aveva 85 anni, quando due giovani, radicalizzati da un discorso di odio, hanno pensato di compiere un atto eroico passando alla violenza omicida. Alla sua età Jacques era fragile, ma era anche forte. Forte della sua fede in Cristo, forte del suo amore per il Vangelo e per la gente, chiunque fosse e — ne sono certa –anche per i suoi assassini». La morte di padre Hamel, per la sorella, «è in linea con la sua vita di sacerdote, che era una vita donata: una vita offerta al Signore, quando ha detto ‘sì’ nel momento della sua ordinazione, una vita al servizio del Vangelo, una vita donata per la Chiesa e per la gente, soprattutto per i più poveri, che ha servito sempre nelle periferie di Rouen». Secondo Roselyne, «c’è un paradosso: lui che non ha mai voluto essere al centro, ha consegnato una testimonianza per il mondo intero, la cui larghezza non possiamo ancora misurare».

La sorella ha raccontato come è stato vissuto in famiglia questo tragico evento: «Noi l’abbiamo vissuta nella reazione di tutti quei cristiani che non hanno ancora predicato la vendetta o l’odio, ma l’amore e il perdono; noi l’abbiamo vista nella solidarietà dei musulmani che hanno voluto visitare le assemblee domenicali dopo la sua morte; noi l’abbiamo vista in Francia, che ha mostrato la sua unità attorno alla tenerezza per questo sacerdote. Per noi, la sua famiglia, restano certamente il dolore e il vuoto». Ma, ha aggiunto, «è di grande conforto vedere quanti nuovi incontri, quanta solidarietà e quanto amore sono stati generati dalla testimonianza di Jacques». «Sì – ha concluso -, Jacques, mio fratello, con la sua vita ha voluto vivere da fratello con tutti coloro che gli erano stati affidati; con la sua morte è divenuto un fratello universale».

Francisco Hernandez (amico di William Quijano), «dobbiamo avere il coraggio di essere maestri» per dare «futuro e speranza»

«L’amore e l’amicizia allargano il cuore; anche William, amico fraterno, aveva il cuore dilatato dalla speranza e questa era la sua forza: amava la vita e in modo amichevole ha attratto molti giovani e bambini alla ‘Scuola della Pace’». Ne è certo Francisco Hernandez Guevara, amico di William Quijano, ucciso in El Salvador la sera del 28 settembre 2009 dalle maras, come sono chiamate le bande giovanili a El Salvador. Il ricordo del ventunenne, appartenente alla Comunità di Sant’Egidio, è stato portato dal suo amico. La colpa di William, ha spiegato Francisco, è stata «sognare un mondo di pace. William non ha mai rinunciato a insegnare la pace, anzi il suo impegno ha spezzato la catena della violenza; diceva: ‘Il mondo è pieno di violenza, per questo dobbiamo lavorare per la pace iniziando dai bambini. Dobbiamo avere il coraggio di essere maestri, perché un paese che non ha scuole né maestri è un paese senza futuro e senza speranza. Le Scuole della Pace sono santuari che pongono una barriera alla violenza e alla povertà. La sicurezza non si ottiene solo con la fermezza, ma con l’amore’». Secondo l’amico, «stupiva che William non parlava mai di repressione, o di vendetta contro le maras», ma «insisteva sulla necessità di un cambiamento di mentalità. In tutti. Nei bambini, per primi, e lui ha cercato di dare loro affetto per dimostrare che con lo studio potevano progredire, avere un futuro. Ma anche nei giovani, negli adulti. Lui stesso si era imposto tale cambiamento». Infatti, «era entrato così profondamente nel sogno della Comunità, nel sogno di una nuova umanità, che voleva viverlo fino in fondo. I bambini potevano e dovevano cambiare, i giovani potevano e dovevano cambiare». Per Francisco, «ciò che ha colpito William, anche se tragicamente, spinge a credere che si può costruire un’altra America Latina, libera dall’incubo delle maras. Nella periferia esistenziale, William ha testimoniato la sua speranza in un mondo diverso, fondandosi sul Vangelo e su valori più umani, sulla centralità della vicinanza».

Sull’altare maggiore della basilica di San Bartolomeo l’icona dei «nuovi martiri»

Sull’altare maggiore della basilica c’è un’icona dedicata ai martiri del Novecento, che rappresenta l’assemblea descritta dal libro dell’Apocalisse: «Dopo ciò apparve una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide e portavano palme nelle mani». Nell’icona una folla di martiri si dirige festosamente verso il Cristo, portando palme nelle mani con Maria, Giovanni evangelista e Giovanni Battista, con gli apostoli Pietro, Paolo e Andrea, con i santi martiri Bartolomeo e Adalberto, cui è dedicata la basilica. Sotto, secondo la visione del libro dell’Apocalisse, gli angeli stendono la tenda di Dio sopra la terra. Sulla terra al centro è raffigurato il lager, come una grande basilica di filo spinato, il più alto luogo di preghiera e di unità delle Chiese d’Oriente e d’Occidente. Al di sotto, una città con le mura spezzate rappresenta la frattura della coabitazione: molti sono i testimoni della fede ricordati, dagli armeni, ai cristiani in Algeria, in India, in Libano. In una chiesa dissacrata vengono uccisi uomini e donne mentre pregano: figura centrale è un prete albanese ucciso per aver battezzato un bambino, mentre dalla porta della città escono coloro che sono morti a causa di marce estenuanti, come gli armeni.

In basso, a sinistra si ricorda la Chiesa Ortodossa russa, attraverso il lager delle isole Solovki, a destra le Chiese d’Occidente: tra gli altri Dietrich Bonhöffer, il beato Oscar Romero e il beato Giuseppe Puglisi. Risalendo sulla destra: i martiri vivono oggi la passione di Cristo. L’ingiusto processo (e la memoria principale è quella del vescovo anglicano ugandese Luwumseminaristi hutu e tutsi che a Buta, in Burundi, furono uccisi perché non si vollero separare e padre Alexander Men’. Tra i fucilati il patriarca dei copti d’Etiopia Abuna Petros, i martiri di Spagna e Messico e il beato Zefirino, il martire zingaro ucciso durante la guerra civile spagnola. Risalendo sulla sinistra: le opere dei martiri. La preghiera: nel buio del carcere in Romania cattolici, ortodossi, battisti si dividono la Bibbia per impararla a memoria e poterla recitare gli uni agli altri. Un uomo solo nella cella ricorda i prigionieri in Cina. La carità: san Massimiliano Kolbe, e con lui chi ha dato la vita per i malati, per gli affamati, per aver accolto i nemici. La comunicazione del Vangelo, infine, ricorda tutti i missionari uccisi in ogni continente.