Vita Chiesa

Papa Francesco alla Diocesi di Roma: parrocchie stanche? «È l’ora di uscire e ascoltare il grido della gente»

«Siamo diventati più consapevoli di essere, per certi aspetti e per certe dinamiche emerse dalle nostre verifiche, un ‘non-popolo’ chiamato a rifare ancora una volta alleanza con il Signore». Lo ha detto il Papa, incontrando questa sera la sua diocesi nella basilica di San Giovanni in Laterano, dove al suo arrivo è stato accolto da mons. Angelo De Donatis, suo vicario per la diocesi di Roma. Sia all’interno della che nel cortile adiacente, grazie ai maxischermi, erano presenti circa duemila persone, in rappresentanza di tutte le componenti della comunità ecclesiale: i vescovi ausiliari, i sacerdoti, i religiosi e le religiose ed i rappresentanti laici delle parrocchie, delle realtà ecclesiali, delle cappellanie e delle scuole cattoliche della città.

«Il lavoro sulle malattie spirituali ha avuto due frutti», ha esordito Francesco concludendo, con il suo discorso, il cammino di riflessione su alcune delle «malattie spirituali» elencate nell’Evangelii gaudium avviato, su invito del vicario, dalle parrocchie e dalle prefetture all’inizio della Quaresima. «Primo, una crescita nella verità della nostra condizione di bisognosi, di infermi, emersa in tutte le parrocchie e le realtà che sono state chiamate a confrontarsi sulle malattie spirituali indicate da mons. De Donatis. Secondo, l’esperienza che da questa adesione alla nostra verità non sono venuti solo scoraggiamento o frustrazione, ma soprattutto la consapevolezza che il Signore non ha smesso di usarci misericordia: in questo cammino egli ci ha illuminati, ci ha sostenuti, ha avviato un percorso per certi versi inedito di comunione tra di noi, e tutto questo perché noi possiamo riprendere il nostro cammino dietro a lui».

Adottare «paradigma» e «linguaggio» dell’Esodo. «Anche noi possiamo nuovamente lasciarci illuminare dal paradigma dell’Esodo, che racconta proprio come il Signore si sia scelto ed educato un popolo al quale unirsi, per farne lo strumento della sua presenza nel mondo». È l’invito del Papa, che nel suo discorso alla diocesi di Roma ha adottato come chiave di lettura «quanto vissuto dal popolo dell’antica alleanza, che per primo si lasciò guidare da Dio a diventare il suo popolo». «In quanto paradigma per noi, l’esperienza di Israele necessita di una coniugazione per diventare linguaggio, cioè per essere comprensibile e per trasmettere e far vivere qualcosa a noi anche oggi», ha spiegato Francesco, secondo il quale «la Parola di Dio, l’opera del Signore, cerca qualcuno con cui coniugarsi, unirsi: la nostra vita. Con questa gente che siamo noi oggi, egli agirà con la stessa potenza con la quale agì liberando il suo popolo e donandogli una nuova terra».

«La storia dell’Esodo parla di una schiavitù, di un’uscita, di un passaggio, di un’alleanza, di una tentazione e di un ingresso», ha ricordato il Papa: «Iniziando questa nuova tappa di un cammino ecclesiale che a Roma non inizia certo adesso ma piuttosto dura da duemila anni, è stato importante chiederci – come abbiamo fatto in questi mesi – quali siano le schiavitù che hanno finito col renderci sterili, così come il Faraone voleva Israele senza figli che a loro volta generassero».

«Dovremmo forse individuare anche chi sia oggi il Faraone», la proposta di Francesco: «questo potere che si pretende divino e assoluto, e che vuole impedire al popolo di adorare il Signore, di appartenergli, rendendolo invece schiavo di altri poteri e di altre preoccupazioni». «Sarà necessario dedicare del tempo perché, riconosciute umilmente le nostre debolezze e avendole condivise con gli altri, possiamo sentire e fare esperienza di questo fatto: c’è un dono di misericordia e di pienezza di vita per noi e per tutti quelli che abitano a Roma». Ne è convinto il Papa, secondo il quale «questo dono è la volontà buona del Padre per noi: noi singoli e noi popolo. È la sua presa di iniziativa, il suo precederci nell’attestarci che in Cristo Egli ci ha amato e ci ama, che ha a cuore la nostra vita e noi non siamo creature abbandonate al loro destino e alle loro schiavitù. Che tutto è per la nostra conversione e per il nostro bene».

«stanchezza delle parrocchie», «ci siamo accontentati di noi stessi e delle nostre pentole». «L’analisi delle malattie ha messo in evidenza una generale e sana stanchezza delle parrocchie sia di girare a vuoto sia di aver perso la strada da percorrere». Così il Papa, ha commentato i risultati conclusivi della riflessione della sua diocesi sulle «malattie spirituali». «Forse ci siamo chiusi in noi stessi e nel nostro mondo parrocchiale perché abbiamo in realtà trascurato o non fatto seriamente i conti con la vita delle persone che ci erano state affidate: quelle del nostro territorio, dei nostri ambienti di vita quotidiana – il mea culpa di Francesco – mentre il Signore sempre si manifesta incarnandosi qui e ora, cioè anche e precisamente in questo tempo così difficile da interpretare, in questo contesto così complesso e apparentemente lontano da lui. Non ha sbagliato mettendoci qui, in questo tempo, e con queste sfide davanti». «Forse per questo – ha ipotizzato il Papa – ci siamo trovati in una condizione di schiavitù, cioè di limitazione soffocante, di dipendenza da cose che non sono il Signore; pensando magari che questo bastasse o fosse addirittura quello che lui ci chiedeva di fare: stare vicino alla pentola della carne, e impastare mattoni, che poi servono per costruire i depositi del Faraone, funzionali allo stesso potere che esercita la schiavitù».

«Ci siamo accontentati di quello che avevamo: noi stessi e le nostre pentole», la denuncia. «Noi stessi», ha ripetuto Francesco: «e qui c’è il grande tema della ‘ipertrofia dell’individuo’, così presente nelle verifiche: dell’io che non riesce a diventare persona, a vivere di relazioni, e che crede che il rapporto con gli altri non gli sia necessario; e le nostre ‘pentole’: cioè i nostri gruppi, le nostre piccole appartenenze, che si sono rivelate alla fine autoreferenziali, non aperte alla vita tutta intera. Ci siamo ripiegati su preoccupazioni di ordinaria amministrazione, di sopravvivenza».

«Uscire», «ascoltare il grido che sale dalla nostra gente di Roma». «È un bene che questa situazione ci abbia stancato, ci faccia desiderare di uscire». È l’ottica costruttiva con cui il Papa ha analizzato la «generale e sana stanchezza delle parrocchie». «E per uscire, abbiamo bisogno della chiamata di Dio e della presenza del nostro prossimo», ha spiegato: «Occorre ascoltare senza timore la nostra sete di Dio e il grido che sale dalla nostra gente di Roma, chiedendoci: in che senso questo grido esprime un bisogno di salvezza, cioè di Dio? Come Dio vede e ascolta quel grido? Quante situazioni, tra quelle emerse dalle vostre verifiche, esprimono in realtà proprio quel grido!». Un grido, ha detto Francesco a proposito di quello che sale dalla gente della Capitale, che è «l’invocazione che Dio si mostri e ci tragga fuori dall’impressione che la nostra vita sia inutile e come espropriata dalla frenesia delle cose da fare e da un tempo che continuamente ci sfugge tra le mani; espropriata dai rapporti solo utilitaristi e poco gratuiti, dalla paura del futuro; espropriata anche da una fede concepita soltanto come cose da fare e non come una liberazione che ci fa nuovi a ogni passo, benedetti e felici della vita che facciamo». «Vi sto invitando a intraprendere un’altra tappa del cammino della Chiesa di Roma: in un certo senso un nuovo esodo, una nuova partenza, che rinnovi la nostra identità di popolo di Dio, senza rimpianti per ciò che dovremo lasciare», ha poi esplicitato il Papa.

Diventare «capaci di generare un popolo». «Ascoltare il grido del popolo, come Mosè fu esortato a fare: sapendo così interpretare, alla luce della Parola di Dio, i fenomeni sociali e culturali nei quali siete immersi». È l’imperativo della parte finale del discorso pronunciato stasera dal Papa a S. Giovanni in Laterano, in cui ha invitato la sua diocesi «a discernere dove lui è già presente, in forme molto ordinarie di santità e di comunione con lui: incontrando e accompagnandovi sempre più con gente che già sta vivendo il Vangelo e l’amicizia con il Signore». «Gente che magari non fa catechismo, eppure ha saputo dare un senso di fede e di speranza alle esperienze elementari della vita», la fotografia di Francesco: «che ha già fatto diventare significato della sua esistenza il Signore, e proprio dentro quei problemi, quegli ambienti e quelle situazioni dalle quali la nostra pastorale ordinaria resta normalmente lontana».

L’esempio citato dal Papa è quello di due donne, Pua e Sifra, «le due levatrici che obiettarono all’ordine omicida del Faraone e che così impedirono lo sterminio». «Anche a Roma vi sono certamente donne e uomini che interpretano il loro lavoro di ogni giorno come un lavoro destinato a dare vita a qualcuno e non a toglierla, e lo fa senza mandati particolari da parte di nessuno ma perché ‘temono Dio’ e lo servono», la fiducia del vescovo nella sua gente: «La vita del popolo di Israele deve molto a quelle due donne, come la nostra Chiesa deve molto a persone rimaste anonime ma che hanno preparato l’avvenire di Dio». Per far questo, la ricetta del Papa, «occorrerà che le nostre comunità diventino capaci di generare un popolo, capaci cioè di offrire e generare relazioni nelle quali la nostra gente possa sentirsi conosciuta, riconosciuta, accolta, benvoluta, insomma: parte non anonima di un tutto. Un popolo in cui si sperimenta una qualità di rapporti che è già l’inizio di una Terra Promessa, di un’opera che il Signore sta facendo per noi e con noi».

La rivoluzione della tenerezza è il primo passo. «Fenomeni come l’individualismo, l’isolamento, la paura di esistere, la frantumazione e il pericolo sociale, tipici di tutte le metropoli e presenti anche a Roma, hanno già in queste nostre comunità uno strumento efficace di cambiamento». Il Papa ha concluso il suo discorso all’insegna della speranza. «Non dobbiamo inventarci altro, noi siamo già questo strumento che può essere efficace, a patto che diventiamo soggetti di quella che altrove ho già chiamato la rivoluzione della tenerezza», ha garantito Francesco: «E se la guida di una comunità cristiana è compito specifico del ministro ordinato, cioè del parroco, la cura pastorale è incardinata nel battesimo, fiorisce dalla fraternità e non è compito solo del parroco o dei sacerdoti, ma di tutti i battezzati». «Questa cura diffusa e moltiplicata delle relazioni potrà innervare anche a Roma una rivoluzione della tenerezza, che sarà arricchita dalle sensibilità, dagli sguardi, delle storie di molti», la tesi del Papa: «Tenendo questo come un primo compito pastorale, potremo essere lo strumento attraverso il quale sia sperimenteremo l’azione dello Spirito Santo tra di noi, sia vedremo vite cambiare». «Come attraverso l’umanità di Mosè Dio intervenne per Israele, così l’umanità risanata e riconciliata dei cristiani può essere lo strumento di questa azione del Signore che vuole liberare il suo popolo da tutto ciò che lo fa non-popolo, con il suo carico di ingiustizia e di peccato che genera morte», ha proseguito Francesco tornando all’immagine iniziale dell’Esodo: «Ma bisogna guardare a questo popolo e non a noi stessi, lasciarci interpellare e scomodare. Questo produrrà certamente qualcosa di nuovo, di inedito e di voluto dal Signore».

Riprendere uno sguardo pastorale. «C’è un passaggio previo di riconciliazione e di consapevolezza che la Chiesa di Roma deve compiere per essere fedele a questa sua chiamata», ha concluso il Papa: «e cioè riconciliarsi e riprendere uno sguardo veramente pastorale – attento, premuroso, benevolo, coinvolto – sia verso sé stessa e la sua storia, sia verso il popolo alla quale è mandata». Di qui la necessità di «dedicare del tempo» a questo compito, già a partire dal prossimo anno pastorale, per dare corpo a «nuove condizioni di vita e di azione pastorale, più rispondenti alla missione e ai bisogni dei romani di questo nostro tempo; più creative e più liberanti anche per i presbiteri e per quanti più direttamente collaborano alla missione, all’edificazione della comunità cristiana. Per non avere più paura di quel che siamo e del dono che abbiamo, ma per farlo fruttificare». «Vi invito a leggere così anche alcune delle difficoltà e delle malattie che avete riscontrato nelle vostre comunità», la consegna per la Chiesa di Roma: «come realtà che forse non sono più buone da mangiare, non possono più essere offerte per la fame di qualcuno. Il che non significa affatto che non possiamo produrre più niente, ma che dobbiamo innestare virgulti nuovi: innesti che daranno frutti nuovi».