Vita Chiesa

Papa Francesco: alla Comunità di Sant’Egidio, «preghiera, poveri e pace». No alla paura verso lo straniero

«Non avete voluto fare di questa festa solo una celebrazione del passato, ma anche e soprattutto una gioiosa manifestazione di responsabilità verso il futuro», il tributo di Francesco. «Il nostro tempo – ha osservato – conosce grandi paure di fronte alle vaste dimensioni della globalizzazione. E le paure si concentrano spesso su chi è straniero, diverso da noi, povero, come se fosse un nemico. Si fanno anche dei piani di sviluppo delle nazioni sotto la guida della lotta contro questa gente. E allora ci si difende da queste persone, credendo di preservare quello che abbiamo o quello che siamo. L’atmosfera di paura può contagiare anche i cristiani che, come quel servo della parabola, nascondono il dono ricevuto: non lo investono nel futuro, non lo condividono con gli altri, ma lo conservano per sé: ‘Io appartengo alla associazione tale…; io sono di quella comunità…’; si ‘truccano’ la vita con questo e non fanno fiorire il talento. Se siamo da soli, siamo presi facilmente dalla paura. Ma il vostro cammino vi orienta a guardare insieme il futuro: non da soli, non per sé. Insieme con la Chiesa». «La vostra Comunità, nata alla fine degli anni Sessanta, è figlia del Concilio, del suo messaggio e del suo spirito», ha ricordato il Papa: «Il futuro del mondo appare incerto, lo sappiamo, lo sentiamo tutti i giorni nei telegiornali. Guardate quante guerre aperte! So che pregate e operate per la pace. Pensiamo ai dolori del popolo siriano, l’amato e martoriato popolo siriano, di cui avete accolto in Europa i rifugiati tramite i corridoi umanitari. Com’è possibile che, dopo le tragedie del ventesimo secolo, si possa ancora ricadere nella stessa assurda logica?».

Mondo globalizzato ma nuovi muri per i poveri. «Da quando la vostra comunità è nata – ha proseguito il Papa -, il mondo è diventato globale: l’economia e le comunicazioni si sono, per così dire, unificate. Ma per tanta gente, specialmente poveri, si sono alzati nuovi muri. Le diversità sono occasione di ostilità e di conflitto; è ancora da costruire una globalizzazione della solidarietà e dello spirito». «Il futuro del mondo globale è vivere insieme», ha proseguito Francesco: «Questo ideale richiede l’impegno di costruire ponti, tenere aperto il dialogo, continuare a incontrarsi. Non è solo un fatto politico o organizzativo. Ciascuno è chiamato a cambiare il proprio cuore assumendo uno sguardo misericordioso verso l’altro, per diventare artigiano di pace e profeta di misericordia». Come il samaritano della parabola, che «non aveva una specifica responsabilità verso l’uomo ferito, ed era straniero. Invece si comportò da fratello, perché ebbe uno sguardo di misericordia».

«Il cristiano, per sua vocazione, è fratello di ogni uomo, specie se povero, e anche se nemico», ha ricordato il Papa: «Non dite mai: ‘Io che c’entro?’. Bella parola per lavarsi le mani! ‘Io che c’entro?’. Uno sguardo misericordioso ci impegna all’audacia creativa dell’amore, ce n’è tanto bisogno! Siamo fratelli di tutti e, per questo, profeti di un mondo nuovo; e la Chiesa è segno di unità del genere umano, tra popoli, famiglie, culture». «Questo anniversario vorrei che fosse un anniversario cristiano: non un tempo per misurare i risultati o le difficoltà; non l’ora dei bilanci, ma il tempo in cui la fede è chiamata a diventare nuova audacia per il Vangelo», l’auspicio: «L’audacia non è il coraggio di un giorno, ma la pazienza di una missione quotidiana nella città e nel mondo. È la missione di ritessere pazientemente il tessuto umano delle periferie, che la violenza e l’impoverimento hanno lacerato; di comunicare il Vangelo attraverso l’amicizia personale; di mostrare come una vita diventa davvero umana quando è vissuta accanto ai più poveri; di creare una società in cui nessuno sia più straniero. È la missione di valicare i confini e i muri per riunire». «Oggi, ancora di più, continuate audacemente su questa strada», la consegna finale del Papa: «Continuate a stare accanto ai bambini delle periferie con le Scuole della Pace, che ho visitato; continuate a stare accanto agli anziani: a volte sono scartati, ma per voi sono amici. Continuate ad aprire corridoi umanitari per i profughi della guerra e della fame. I poveri sono il vostro tesoro!».

Marco Impagliazzo: «Vogliamo sognare una Chiesa popolo di tutti». «Con Lei vogliamo non tanto guardare agli anni trascorsi, ma il futuro di una Comunità in uscita verso le periferie della città e del mondo. La città è stata sempre il nostro orizzonte, fin dai primi passi. Soprattutto la città nascosta e sconosciuta, quella delle povertà e dell’esclusione», ha detto il presidente della Comunità di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, nel suo saluto al Papa. «I primi bambini della scuola della pace Andrea Riccardi e i suoi amici li incontrarono sul greto del Tevere, in baracche nascoste dai cartelli pubblicitari collocati in certe zone di Roma durante l’Olimpiade del 1960 – ha ricordato –. Dov’era la Chiesa tra quelle persone? Dov’era Dio in quei luoghi? Per questo, insieme alla scuola della pace, iniziammo ad aprire il Vangelo per rendere presente Gesù tra quella gente abbandonata». Il presidente ha sottolineato come «dalla comunicazione del Vangelo sia nato il frutto che Lei vede oggi». «La Parola ci ha liberato dall’ideologia e dalla tentazione dell’autoreferenzialità. Dio non è un sogno, la sua Parola non è un sogno, ma fa sognare. La Parola ci ha fatto sognare, noi uomini e donne dai piccoli orizzonti». «I poveri ci sono stati maestri in tante occasioni e che sono nostri fratelli e sorelle – ha aggiunto –. Che triste una Chiesa che ha i poveri come clienti e non come fratelli». Quindi, un «grazie» al Papa per «aver portato, con la sua parola e i suoi gesti, i poveri al cuore della Chiesa e aver realizzato il grande sogno di papa Giovanni di una Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri». «Abbiamo trovato in Lei un padre e un fratello, mentre la Chiesa ci è madre». «Questa Comunità non è per qualcuno, non è di una parte o di un’altra, ma è per tutti». Infine, uno sguardo di prospettiva. «Con Lei vogliamo sognare una Chiesa popolo di tutti, nessuno escluso, perché la misericordia del Signore tocchi il cuore di tutti, senza esclusioni».

«Vivere insieme per un mondo fraterno, tra popoli, nelle periferie e in città, è una rivoluzione possibile, se partiamo dal cuore e dal Vangelo», ha detto a sua volta il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, nel suo saluto al Papa. «Il tempo è cambiato dal ’68 e dalle nostre origini. Interi mondi sono scomparsi; i nuovi mondi del Sud hanno perso la speranza di essere nuovi e hanno conosciuto la guerra. Tutto si è globalizzato divenendo un grande mercato – ha aggiunto –. Sembra però che poco sia cambiato nei poteri che reggono la storia, come il denaro, che lei ha varie volte ricordato». Quindi, una considerazione sul «tempo globale» in cui è diffusa la considerazione che «bisogna prima di tutto sopravvivere: difendersi, dagli altri, dai poveri». «È la logica del pensare a sé: va dall’egocentrismo personale all’egoismo nazionale. Ogni Paese deve chiudersi e salvarsi dalla marea del mondo. Ci si sente vittime e si ha paura». Ma «noi conserviamo dal ’68 e dintorni la convinzione che tutto può cambiare e che dipende anche da noi». La missione «grande» è «accettare la sfida di fare il mondo migliore. A mani nude e con la parola: gli strumenti del Vangelo e sono i migliori. È la forza degli umili e dei poveri». Infine, Riccardi ha sottolineato l’importanza dell’Evangelii Gaudium in questo percorso. «Da quando lei ha proposto di uscire per strada, fuori dall’istituzione, dalle sacrestie, dai piani pastorali, dall’autoreferenzialità, dall’egocentrismo, dalla nostra purezza – ha aggiunto –, un popolo grande s’è messo in cammino. Si vede tanta gente che ha voglia di fare il bene, ci sono risorse e energie, non solo rabbia ma molto amore. E questo dà speranza e gioia». In questa prospettiva, «Sant’Egidio non si sente una comunità di perfetti, ma una comunità di popolo, magari piccola ma senza confini, perché coinvolta dai dolori vicini e dai lontani». «La rabbia e l’egocentrismo si guariscono – ha concluso –, se andiamo incontro con simpatia, rendiamo ragione della speranza e aiutiamo a incontrare i poveri. L’età della rabbia può diventare età della fraternità e dello spirito».