Vita Chiesa
Papa: “È scandalosa l’esclusione dei migranti! Anzi, è criminale, li fa morire davanti a noi
“Oggi abbiamo il Mediterraneo che è il cimitero più grande del mondo. L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale. Non aprire le porte a chi ha bisogno”. Lo ha detto Papa Francesco nell’omelia pronunciata oggi durante la Messa in piazza San Pietro per la canonizzazione dei beati Giovanni Battista Scalabrini e Artemide Zattidi. “Chiediamoci quanto siamo davvero comunità aperte e inclusive verso tutti; se riusciamo a lavorare insieme, preti e laici, a servizio del Vangelo; se abbiamo un atteggiamento accogliente – non solo con le parole ma con gesti concreti – verso chi è lontano e verso tutti coloro che si avvicinano a noi, sentendosi inadeguati a causa dei loro travagliati percorsi di vita. Li facciamo sentire parte della comunità oppure li escludiamo?”. No, non li escludiamo, li mandiamo via: ai lager, dove sono sfruttati e venduti come schiavi. Fratelli e sorelle, oggi pensiamo ai nostri migranti, quelli che muoiono. E quelli che sono capaci di entrare, li riceviamo come fratelli o li sfruttiamo?”, si è chiesto il Papa lasciando la risposta ai presenti.
Di seguito l’omelia di Papa Francesco
Mentre Gesù è in cammino, dieci lebbrosi gli vanno incontro gridandogli: «Abbi pietà di noi» (Lc 17,13). Tutti e dieci vengono guariti, ma soltanto uno di loro ritorna per ringraziare Gesù: è un samaritano, una sorta di eretico per i giudei. All’inizio camminano insieme, poi però la differenza la fa quel samaritano, che torna indietro «lodando Dio a gran voce» (v. 15). Fermiamoci su questi due aspetti che possiamo ricavare dal Vangelo odierno: camminare insieme e ringraziare.
Anzitutto, camminare insieme. All’inizio del racconto non c’è nessuna distinzione tra il samaritano e gli altri nove. Semplicemente si parla di dieci lebbrosi, che fanno gruppo tra di loro e, senza divisione, vanno incontro a Gesù. La lebbra, come sappiamo, non era soltanto una piaga fisica – che anche oggi dobbiamo impegnarci a debellare –, ma anche una “malattia sociale”, perché a quel tempo per timore della contaminazione i lebbrosi dovevano stare fuori dalla comunità (cfr Lv 13,46). Quindi non potevano entrare nei centri abitati, erano tenuti a distanza, relegati ai margini della vita sociale e perfino di quella religiosa, isolati. Camminando insieme, questi lebbrosi manifestano il loro grido nei confronti di una società che li esclude. E notiamo bene: il samaritano, anche se ritenuto eretico, “straniero”, fa gruppo con gli altri. Fratelli e sorelle, la malattia e la fragilità comuni fanno cadere le barriere e superare ogni esclusione.
Si tratta di un’immagine bella anche per noi: quando siamo onesti con noi stessi, ci ricordiamo di essere tutti ammalati nel cuore, di essere tutti peccatori, tutti bisognosi della misericordia del Padre. E allora smettiamo di dividerci in base ai meriti, ai ruoli che ricopriamo o a qualche altro aspetto esteriore della vita, e cadono così i muri interiori, cadono i pregiudizi. Così, finalmente, ci riscopriamo fratelli. Anche Naamàn il siro – ci ha ricordato la prima Lettura -, pur essendo ricco e potente, per guarire ha dovuto fare una cosa semplice: immergersi nel fiume in cui si bagnavano tutti gli altri. Anzitutto ha dovuto togliere la sua armatura, le sue vesti (cfr 2 Re 5): come ci fa bene togliere le nostre armature esteriori, le nostre barriere difensive e fare un bel bagno di umiltà, ricordandoci che siamo tutti fragili dentro, tutti bisognosi di guarigione, tutti fratelli. Ricordiamoci questo: la fede cristiana sempre ci chiede di camminare insieme agli altri, mai di essere marciatori solitari; sempre ci invita a uscire da noi stessi verso Dio e verso i fratelli, mai di chiuderci in noi stessi; sempre ci chiede di riconoscerci bisognosi di guarigione e di perdono, e di condividere le fragilità di chi ci sta vicino, senza sentirci superiori.
Fratelli e sorelle, verifichiamo se nella nostra vita, nelle nostre famiglie, nei luoghi dove lavoriamo e che ogni giorno frequentiamo, siamo capaci di camminare insieme agli altri, siamo capaci di ascoltare, di superare la tentazione di barricarci nella nostra autoreferenzialità e di pensare solo ai nostri bisogni. Ma camminare insieme – cioè essere “sinodali” – è anche la vocazione della Chiesa. Chiediamoci quanto siamo davvero comunità aperte e inclusive verso tutti; se riusciamo a lavorare insieme, preti e laici, a servizio del Vangelo; se abbiamo un atteggiamento accogliente – non solo con le parole ma con gesti concreti – verso chi è lontano e verso tutti coloro che si avvicinano a noi, sentendosi inadeguati a causa dei loro travagliati percorsi di vita. Li facciamo sentire parte della comunità oppure li escludiamo? Ho paura quando vedo comunità cristiane che dividono il mondo in buoni e cattivi, in santi e peccatori: così si finisce per sentirsi migliori degli altri e tenere fuori tanti che Dio vuole abbracciare. Per favore, includere sempre, nella Chiesa come nella società, ancora segnata da tante disuguaglianze ed emarginazioni. Includere tutti. E oggi, nel giorno in cui Scalabrini diventa santo, vorrei pensare ai migranti. È scandalosa l’esclusione dei migranti! Anzi, l’esclusione dei migranti è criminale, li fa morire davanti a noi. E così, oggi abbiamo il Mediterraneo che è il cimitero più grande del mondo. L’esclusione dei migranti è schifosa, è peccaminosa, è criminale. Non aprire le porte a chi ha bisogno. “No, non li escludiamo, li mandiamo via”: ai lager, dove sono sfruttati e venduti come schiavi. Fratelli e sorelle, oggi pensiamo ai nostri migranti, quelli che muoiono. E quelli che sono capaci di entrare, li riceviamo come fratelli o li sfruttiamo? Lascio la domanda, soltanto.
Il secondo aspetto è ringraziare. Nel gruppo dei dieci lebbrosi ce n’è uno solo che, vedendosi guarito, torna indietro per lodare Dio e manifestare gratitudine a Gesù. Gli altri nove vengono risanati, ma poi se ne vanno per la loro strada, dimenticandosi di Colui che li ha guariti. Dimenticare le grazie che Dio ci dà. Il samaritano, invece, fa del dono ricevuto l’inizio di un nuovo cammino: ritorna da Chi lo ha sanato, va a conoscere Gesù da vicino, inizia una relazione con Lui. Il suo atteggiamento di gratitudine non è, allora, un semplice gesto di cortesia, ma l’inizio di un percorso di riconoscenza: egli si prostra ai piedi di Cristo (cfr Lc 17,16), compie cioè un gesto di adorazione: riconosce che Gesù è il Signore, e che è più importante della guarigione ricevuta.
E questa, fratelli e sorelle, è una grande lezione anche per noi, che beneficiamo ogni giorno dei doni di Dio, ma spesso ce ne andiamo per la nostra strada dimenticandoci di coltivare una relazione viva, reale con Lui. È una brutta malattia spirituale: dare tutto per scontato, anche la fede, anche il nostro rapporto con Dio, fino a diventare cristiani che non si sanno più stupire, che non sanno più dire “grazie”, che non si mostrano riconoscenti, che non sanno vedere le meraviglie del Signore. “Cristiani all’acqua di rose”, come diceva una signora che ho conosciuto. E, così, si finisce per pensare che tutto quanto riceviamo ogni giorno sia ovvio e dovuto. La gratitudine, il saper dire “grazie”, ci porta invece ad affermare la presenza di Dio-amore. E anche a riconoscere l’importanza degli altri, vincendo l’insoddisfazione e l’indifferenza che ci abbruttiscono il cuore. È fondamentale saper ringraziare. Ogni giorno, dire grazie al Signore, ogni giorno saperci ringraziare tra di noi: in famiglia, per quelle piccole cose che riceviamo a volte senza neanche chiederci da dove arrivino; nei luoghi che frequentiamo quotidianamente, per i tanti servizi di cui godiamo e per le persone che ci sostengono; nelle nostre comunità cristiane, per l’amore di Dio che sperimentiamo attraverso la vicinanza di fratelli e sorelle che spesso in silenzio pregano, offrono, soffrono, camminano con noi. Per favore, non dimentichiamo questa parola-chiave: grazie! Non dimentichiamo di sentire e dire “grazie”!
I due Santi oggi canonizzati ci ricordano l’importanza di camminare insieme e di saper ringraziare. Il Vescovo Scalabrini, che fondò due Congregazioni per la cura dei migranti, una maschile e una femminile, affermava che nel comune camminare di coloro che emigrano non bisogna vedere solo problemi, ma anche un disegno della Provvidenza: «Proprio a causa delle migrazioni forzate dalle persecuzioni – egli disse – la Chiesa superò i confini di Gerusalemme e di Israele e divenne “cattolica”; grazie alle migrazioni di oggi la Chiesa sarà strumento di pace e di comunione tra i popoli» (L’emigrazione degli operai italiani, Ferrara 1899). C’è una migrazione, in questo momento, qui in Europa, che ci fa soffrire tanto e ci muove ad aprire il cuore: la migrazione degli ucraini che fuggono dalla guerra. Non dimentichiamo oggi la martoriata Ucraina! Scalabrini guardava oltre, guardava avanti, verso un mondo e una Chiesa senza barriere, senza stranieri. Da parte sua, il fratello salesiano Artemide Zatti, con la sua bicicletta, è stato un esempio vivente di gratitudine: guarito dalla tubercolosi, dedicò tutta la vita a gratificare gli altri, a curare gli infermi con amore e tenerezza. Si racconta di averlo visto caricarsi sulle spalle il corpo morto di uno dei suoi ammalati. Pieno di gratitudine per quanto aveva ricevuto, volle dire il suo “grazie” facendosi carico delle ferite degli altri. Due esempi.
Preghiamo perché questi nostri santi fratelli ci aiutino a camminare insieme, senza muri di divisione; e a coltivare questa nobiltà d’animo tanto gradita a Dio che è la gratitudine.