Vita Chiesa
Papa a Nomadelfia: viaggio tra un «popolo di famiglie» dove la fraternità è legge
Nomadelfia, «legge della fraternità», recita la scritta di vernice bianca a caratteri cubitali su un monolite di pietra scura, in greco, in ebraico, in arabo e in cirillico oltre all’italiano. È il benvenuto che il visitatore – anche quello più atteso e illustre, Papa Francesco, che verrà qui il 10 maggio – trova all’ingresso della comunità, simbolo di un popolo che vuole ripartire dagli inizi del cristianesimo, dalle prime comunità dove nessuno era considerato «miserabile». «Famiglia allargata», in quest’angolo di palude maremmana reso verde dalla tenacia di un prete visionario che insieme alle prime famiglie mezzo secolo fa ha cominciato a bonificarlo rendendolo fertile, vuol dire tutto il contrario di quello a cui la vulgata della civiltà occidentale del «politically correct» ci ha abituato: allargare la famiglia, per i nomadelfi, significa vivere per scelta il Vangelo «sine glossa», all’insegna della fraternità e dell’uguaglianza. Tra legami di sangue e legami d’adozione, tra figli «naturali» e figli dell’abbandono, tra bambini e anziani, tra disabili e vittime di violenza, carcerati, profughi di guerra. È per questo che, a Nomadelfia, ci si chiama tutti per nome: i cognomi sono banditi, perché potrebbero diventare un segno di discriminazione tra volti e storie così diverse, tra i figli che sono venuti al mondo qui e quelli che sono stati accolti con le cicatrici spesso indelebili della sofferenza.
Il 10 maggio, dopo la sosta in preghiera sulla tomba di don Zeno e prima dell’incontro con la comunità nella sala che porta il suo nome, il Papa si dirigerà al «Poggetto» per far visita ad un gruppo familiare, composto da tre nuclei familiari e 23 persone, nell’edificio che ospita i locali per le attività comuni.
Tutto intorno, le «casette» dai colori pastello, come i fiori delle fioriere che ne adornano il perimetro esterno, dove si va solo per dormire. E proprio nello spazio davanti all’edificio più grande Alessandro e Valentina, con i loro 10 figli – accoglieranno il Papa, lo accompagneranno all’interno della casa centrale per offrigli la colazione e pregare nella cappellina domestica con l’Eucarestia che ognuna delle case ospita. Qui il Papa resterà a colloquio privato con due madri.
A Nomadelfia vivono 300 persone in tutto in un’area di quattro chilometri quadrati, a cui vanno aggiunte le 30 persone della sede di Roma. Un’oasi autosufficiente – con 120 ettari coltivati a vigna, 3.000 ulivi, 150 mucche, una falegnameria, una carpenteria e un’azienda meccanica – ma non chiusa, dove non circola denaro e ognuno svolge il lavoro che serve alla comunità, non per forza sempre lo stesso. Il trenino di Silvia, puntuale tutte le mattine, raccoglie i bambini del «pre-scuola», dai tre ai cinque anni. Sono i più piccoli, e come quelli più grandi si stanno preparando ad accogliere il Papa a modo loro. A Nomadelfia, infatti, dalla materna al liceo, e non soltanto a scuola, l’educazione è condivisa. Dei 100 minori presenti, una ventina sono in affido. «Se potessi prendere per mano il Papa, dove lo porteresti?», il tema proposto ai bimbi per i loro disegni da donare a Francesco durante il momento di festa: »Ognuno ha disegnato i suoi luoghi preferiti per fare da guida al Papa», spiega Silvia. Nella sala don Zeno, davanti a lui, saranno protagonisti di un breve spettacolo di musica, danza e recitazione 114 persone, dai 3 ai 70 anni.
Ada è una «mamma di vocazione». Nel giardino esterno della casa in legno e pietra che esisteva già quando è arrivata qui, 50 anni fa, all’inizio è quasi schiva, non è abituata a parlare tanto, ma poi diventa un fiume in piena, quando parla dei suoi figli e spiega la singolarità della sua vocazione. «Non c’è stato un momento in cui mi sia pentita», spiega a proposito della sua scelta: come quando ha accolto Roberto, 2 anni, malato di fibrosi cistica con una prognosi di sei mesi di vita. Ha vissuto a Nomadelfia fino a quando è morto, ad 11 anni. Diceva: «Io sono nato a Nomadelfia all’età di due anni». O come Rita, 17 anni, già devastata dall’eroina, morta dieci anno dopo per un corto circuito nel camper con cui era fuggita per poter conoscere suo figlio. Nelle tasche dei jeans, conservava un biglietto scritto da don Zeno: «In qualunque posto tu sei, ricordati che io sono sempre tuo padre».
«Integrale, non integralista». Sandro definisce così la sua comunità. Oggi è a Roma, ma ha conosciuto don Zeno, e quella che sarebbe diventata la donna della sua vita, a 19 anni; a 23 era a Nomadelfia. Oggi vive nella sede romana, l’annesso agricolo di un monastero di benedettine a Montemario, dono di Giovanni Paolo II alla comunità. Raffaele, suo genero, 29 anni, e Susanna, sua figlia, hanno scelto questa vita e si sono scelti, fino a sposarsi. La libertà dei figli è ciò che colpisce di più a Nomadelfia: lo sguardo sereno di chi ha intrapreso una strada senza condizionamenti o ricatti, magari quelli inconsapevoli dei genitori che danno tutto ai figli ma poi chiedono loro in cambio di seguire un percorso prestabilito. Finite le superiori, i nomadelfi fanno da privatisti l’esame di Stato e poi sono liberi di decidere se andarsene o restare. Molti, la maggioranza, vanno via, altri restano per frequentare l’università o per lavorare in comunità, altri ancora si mettono alla prova prendendosi un anno sabbatico. Come Stefano, che tra poco prenderà la maturità e andrà a lavorare per un anno al Nord. Poi si vedrà. Negli occhi di Alessandro e Valentina, i suoi genitori, non c’è nessuna ansia o sindrome del distacco: a Nomadelfia i figli non sono una proprietà, ma un popolo da far fiorire. «Nomadelfia è nostra, ma è parte dell’umanità, ha qualcosa da dire al mondo», diceva don Zeno. Da «utopia» a «eutopia», il cammino, che dal 10 maggio – 29 anni dopo la visita di un altro papa, Giovanni Paolo II – potrà contare su un «testimonial» in più.