Cultura & Società
Paolo VI, un papa saggio per tempi difficili
di Romanello Cantini
I quindici anni del pontificato di Paolo VI rappresentano uno dei periodi più tormentati della storia della Chiesa. Coprono un arco di tempo in cui si susseguono e si accavallano tensioni diverse e disgreganti della comunità ecclesiale e della società civile. Da un lato le spinte opposte del Conciclio e del postconcilio fra tradizionalisti e innovatori. Poi la contestazione all’interno della Chiesa che accompagna il movimento del sessantotto nella società civile: quasi contemporaneamente i primi segni inequivocabili della secolarizzazione dell’Italia con l’approvazione della legge sul divorzio prima e con quella dell’aborto dopo. Infine il terrorismo che insanguina tutti gli Anni settanta e culmina nell’assassinio di Aldo Moro.
Paolo VI, che pure credeva fermamente nel Concilio e che, pur senza averlo deciso, dovette condurre a termine il maggior numero delle sue sessioni, si trovò a lottare fra chi non voleva cambiare quasi nulla e chi invece riteneva che il Concilio fosse quasi la data di inizio del Cristianesimo dimenticando, se non gettando del tutto, venti secoli di dottrina e di storia: Paolo VI si trovò ad esercitare una difficile opera di mediazione anche fra chi voleva seguire i «segni del mondo» dimenticando i «segni di Dio» e viceversa, fra chi voleva spendere tutto il senso del Vangelo nella storia e chi invece voleva confinarlo tutto nella sua dimensione intimista e trascendente.
Non volle essere il notaio del Concilio e non volle limitarsi a riceverne i documenti. Intervenne con fermezza anche nell’assemblea dei padri conciliari laddove lo ritenne necessario. Nel novembre 1964 quando si accorse che la costituzione De ecclesia metteva di fatto in discussione il primato di Pietro volle che da parte dei padri fosse aggiunto uno schema esplicativo che ne eliminasse le ambiguità. Quando si accorse che il documento sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae rischiava il relativismo ne sospese la votazione. Nell’ottobre del 1965 inviò una lettera ai padri perché l’argomento del celibato ecclesiastico non fosse nemmeno messo all’ordine del giorno. Il modo in cui il latino fu poi completamente eliminato dalla liturgia andava al di là delle sue intenzioni e della stessa costituzione Sacrosantum concilium. Paolo VI voleva che la lingua tradizionale della liturgia rimanesse nell’uso corale da parte dei monaci e nelle messe delle comunità religiose e conventuali. A difesa del latino si erano del resto rivolti a lui personaggi sorprendenti se si considera la loro storia di intellettuali raffinati e moderni. Fra loro c’erano Jacques e Raissa Maritain, Francois Mauriac, Arturo Carlo Jemolo, Eugenio Montale, Jorge Louis Borges.
Aveva tuttavia proseguito sulla via retta del concilio. Nel settembre 1965 con il motu proprio Apostolica sollecitudo aveva istituito il Sinodo dei vescovi come strumento della collegialità episcopale. Un mese dopo il Sant’Uffizio fu trasformato in Congregazione per la dottrina della fede con l’intento di sostituire alle censure e alle misure disciplinari la definizione pura e semplice della verità.
Nel maggio 1964 Paolo VI aveva costituito il Segretariato per i non cristiani per curare i rapporti con le altre confessioni religiose. Come segno di superamento di ogni spirito di crociata il 5 marzo 1965 venne riconsegnata alla Turchia la bandiera che era stata conquistata nella battaglia di Lepanto e che era conservata a Roma nelle basilica di Santa Maria Maggiore.
Paolo VI amava i viaggi difficili. Quello in Terrasanta si reggeva su un equilibrismo politico quasi impossibile. Non si doveva parlare di «stato di Israele» per non irritare gli arabi e non si si doveva parlare di «patria palestinese» per non irritare gli israeliani. Il Papa cercò di mantenere al viaggio solo il suo significato religioso: il primo pellegrinaggio di una Papa in Terrasanta da quando Pietro ne era partito duemila anni prima. Quando passò vicino a quel piccolo ruscello che oggi è il Giordano volle scendere nel suo greto sorretto da due soldati giordani e bagnarsi con l’acqua del battista. A Gerusalemme, davanti alla porta di Damasco si trovò circondato da una grande folla di arabi. Anche loro nella loro lingua gridavano: «Viva il Papa».
Paolo VI aveva in mente i poveri anche nei piccoli gesti. Appena eletto aveva donato ai poveri quella tiara che gli avevano regalato i suoi diocesani di Milano e che più nessun Papa porterà dopo di lui che aveva già abolito sedia gestatoria, flabelli, paggi e tutto il personale decorativo e onorifico di quella che era la corte pontificia. A Calcutta regalò l’auto del Papa a Madre Teresa. Il suo viaggio in India, che allora molto più di oggi voleva dire povertà estrema, voleva essere una presa di coscienza diretta del dramma della fame. Anche quando era andato a New York aveva voluto percorrere il ghetto nero di Harlem che in genere i visitatori illustri si guardano bene dal visitare. Purtroppo il governo indiano aveva provveduto a ripulire le strade dei mendicanti che ci vivevano e ci morivano. Ma il Papa volle entrare ugualmente in ospedale e soffermarsi in ginocchio di fronte ai malati che erano proibiti anche alla vista dei visitatori per le loro condizioni.
Il viaggio in Colombia nel 1968 fu un incontro con la contestazione che in America Latina stava ormai conquistando anche i vertici delle chiesa intorno alla «teologia della liberazione» mentre stavano per diventare un esempio la figura di Camillo Torres, di Che Guevara e per qualcuno anche di Fidel Castro. Il Papa disse che in quel viaggio era venuto più a convertire i vescovi che il popolo.
Infine Papa Montini avrebbe compiuto l’ultimo viaggio nel 1970 in Estremo Oriente dove a Manila in mezzo alla folla uno squilibrato lo assalì con un pugnale e lo ferì.
Paolo VI quasi già sulle orme di Papa Wojtyla, avrebbe voluto recarsi in Polonia nel 1966 per celebrare il millennio della sua cristianizzazione. Ma il regime non lo permise. Paolo VI inaugurò la cosiddetta Ostpolitik nei confronti dei regimi dell’Est Europeo inviando a trattare con i regimi dell’Est europeo il cardinale Casaroli. La prima vittima di questo tentativo di trovare un modus vivendi con i governi dell’Est europeo sarà il primate ungherese cardinale Mindzenty che venne sostituito perché la sua esistenza di rifugiato da più di dieci anni nella ambasciata americana a Budapest era di ostacolo ad ogni intesa. Tuttavia il Papa non si illudeva sulla condizione della Chiesa nei paesi comunisti. Prendendo occasione della visita delle catacombe di san Domitilla nel settembre 1965 disse: «La Santa Sede si attiene da non parlare più spesso della chiesa del silenzio per non provocare mali peggiori». Una condanna esplicita del comunismo era venuta del resto con la enciclica Ecclesiam suam del mese precedente.
Ma la sua enciclica più nota rimane senza dubbio la Populorum Progressio del marzo 1967 tutta dedicata al rapporto fra paesi poveri e paesi ricchi con, fra l’altro, quella proposta di un meccanismo per la fissazione di un prezzo equo e costante delle materie prime che Dio solo sa quanto sarebbe attuale oggi.
Poi nel luglio 1968 venne l’Humanae vitae, la più contestata delle encicliche pontificie che aveva disatteso il parere della commissione preparatoria presieduta dal cardinale Suenens che si era pronunciata a favore della contraccezione artificiale. Ma il Papa, come ebbe a spiegare, non si sentì di avvalorare una contraccezione che, al suo avviso, separava non solo l’atto sessuale dalla procreazione, ma anche il piacere dall’amare e rendeva pratica banale anche la sessualità fuori del matrimonio.
Nei confronti della guerra del Vietnam che accompagnò tutto il suo pontificato Paolo VI cercò di lavorare costantemente per la pace pur senza schierarsi apertamente da una parte o dall’altra. Nel 1964 aveva creato nel Sudvietnam il consiglio delle religioni che raccoglieva cattolici, buddisti ed altre minoranze religiose con il compito di operare per la pacificazione del paese. Alla fine scomunicò il vescovo di Huè, Ngo Dinh Thue, che si occupava direttamente dell’attività militare del fratello, il dittatore Diem.
Nel dicembre 1967, ricevendo il presidente Johnson in Vaticano, il Papa gli chiese di mettere fine ai bombardamenti sul Vietnam del Nord e ad iniziare trattative di pace. L’anno prima tramite Enrico Berlinguer aveva fatto arrivare un suo messaggio a Ho Chi Min offrendo addirittura il Vaticano come luogo dove tenere la conferenza di pace.
Ancora più addolorato fu il Papa per l’introduzione dell’aborto nel 1978. Ma dopo un duro confronto che si svolse ai vertici della Curia con chi chiedeva che i ministri democristiani si dimettessero anziché firmare la legge, come farà re Baldovino in Belgio, prevalse alla fine la decisione di non provocare una crisi politica ancora più grave con la impossibilità di qualsiasi collaborazione permanente fra laici e cattolici.
Infine l’omicidio di Moro scosse profondamente il Papa per l’antica amicizia che lo legava allo statista democristiano, per la stima che ne portava e per la barbarie dell’atto a lungo promesso e infine perpetrato. Le due lettere che gli pervennero dalla prigionia di Moro lo sconvolsero. Il Vaticano si attivò in tutti i modi per liberare lo statista, compresa la possibilità di pagare un riscatto che lo stato non avrebbe potuto pagare senza scendere a patti con le Brigate Rosse e per il quale sembrò che si fosse già preparata anche una somma molto alta.
Il Papa rivolse un pubblico appello alle Brigate Rosse il 22 marzo: «Vi prego in ginocchio, liberate Moro». Poi dopo l’assassinio, durante quei funerali in Laterano del 13 maggio, lanciò la speranza che gli rimaneva dopo aver quasi rimproverato Dio di non averlo ascoltato: «Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nello infinito Iddio, noi li rivedremo».
Il Papa aspettò solo tre mesi questo passaggio verso l’eterno che lui amava chiamare la nostra «trasfigurazione»: mori il 6 agosto di trenta anni fa.
Nel 1937 fu nominato sostituto alla Segretaria di Stato sotto il cardinale Pacelli (futuro Pio XII) e poi sotto il cardinale Maglione alla cui morte, nel 1944, continuò a esercitare il suo ufficio direttamente alle dipendenze del Papa. Durante la Seconda Guerra Mondiale, fu responsabile dell’organizzazione degli aiuti umanitari e del sostegno ai rifugiati politici. Nel 1952 Pio XII annunciò che avrebbe voluto elevarlo alla dignità cardinalizia, ma che monsognor Montini aveva rifiutato. Nel 1955 divenne arcivescovo di Milano: la sua opera per rivitalizzare il mondo cattolico e per diffondere il messaggio evangelico tra operai e lavoratori attirò l’attenzione mondiale. Nel 1958 fu creato cardinale da papa Giovanni XXIII, nel suo primo Concistoro. La sua adesione all’idea di un Concilio fu immediata: fece parte della commissione preparatoria centrale del Vaticano II e della commissione tecnico-organizzativa. Alla morte di papa Giovanni, fu eletto suo successore il 21 giugno 1963.
Lungo il suo pontificato, uno dei temi più dibattuti fu la tensione fra il primato del Papa e la collegialità dei vescovi. Nel 1965 annunciò l’istituzione del Sinodo dei Vescovi richiesto dal Concilio, ma riservando all’autorità del Papa alcuni temi specifici: il celibato dei sacerdoti ad esempio, escluso dal dibattito conciliare, fu oggetto di una enciclica, «sacerdotalis caelibatus», il 24 giugno 1967; l’aborto e il controllo delle nascite furono affrontati nella sua ultima enciclica, l’«Humanae vitae», nel 24 luglio 1968.
Paolo VI non ha avuto grande attenzione dalla stampa, e la sua immagine pubblica ha sicuramente risentito del confronto con il suo estroverso e gioviale predecessore. Chi lo ha conosciuto meglio tuttavia lo descrive come una persona brillante, profondamente spirituale, riservata e gentile. È stato un grande viaggiatore, e il primo Papa a visitare tutti i continenti. L’aver portato con successo a compimento il Concilio Vaticano II è il «marchio» più importante che ha lasciato nella storia della Chiesa, ma deve essere anche ricordato per la sua rigorosa riforma della Curia romana, il suo discorso ben accolto alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1965, la sua eniclica «Populorum progressio» (1967) insieme all’altra grande lettera sociale «Octogesima adveniens» (1971), la prima a lanciare l’allarme su alcuni problemi che solo recentemente sono stati messi in luce, e la sua esortazione apostolica «Evangelii nuntiandi». Morì il 6 agosto 1978, festa della Trasfigurazione.