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Paolo VI, il santo «traghettatore». Come Giovanni Battista incompreso ma profetico
I santi non servono ad esser messi sugli altari, ma sono come lampi che illuminano il senso del nostro cammino nella storia. Perciò la canonizzazione, domenica 14 ottobre, di Giovanni Battista Montini, non sarà solo una celebrazione solenne della gloria divina, riflessa nella figura di questo fedele servitore della sua Chiesa, di cui è stato sommo pontefice dal 1963 al 1978, bensì un’occasione significativa per capire il nostro compito di credenti in questo momento particolarmente difficile per la comunità cristiana. E quello che Paolo VI ci può insegnare è innanzi tutto di cercare di capire la transizione che stiamo vivendo, come egli ha compreso la sua. L’essere un intellettuale – oggi è quasi un insulto… – gli ha consentito di cogliere con lucidità i segnali di una crisi epocale che, a livello planetario, stava per sconvolgere il mondo e che chiedeva a tutti, anche alla Chiesa, un profondo rinnovamento.
Come il precursore di cui portava il nome, papa Montini è stato il mediatore tra un passato che finiva e una novità che irrompeva. Nella sua grande enciclica sociale Populorum progressio, del 1967, quando ancora non si parlava di globalizzazione, egli ha saputo vedere che «i conflitti sociali si sono dilatati fino a raggiungere le dimensioni del mondo», denunciando «lo scandalo di disuguaglianze clamorose» tra le nazioni (n.9), e ha individuato nello sviluppo il nuovo nome di una pace che, altrimenti, rischiava di rimanere la tranquillità non dell’ordine, ma del disordine e dell’ingiustizia. «I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza. La Chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia» (n.3). Per i paesi ricchi – avvertiva allora Paolo VI, molto prima della stagione dell’esplodere del terrorismo internazionale – chiudersi nel proprio egoismo avrebbe inevitabilmente significato affrontare «la collera dei poveri» (n.49).
Discepolo di Maritain, di cui da giovane aveva conosciuto (e, secondo alcuni, anche tradotto in italiano Umanesimo integrale) e con cui rimase sempre in contatto, Paolo VI era convinto del valore della democrazia e del ruolo che i cristiani potevano avere per alimentarne il corretto sviluppo – fu personalmente amico di Alcide De Gasperi – , al di là di tante nostalgie conservatrici e autoritarie che serpeggiavano da sempre negli ambienti cattolici sia in Italia che in molti altri paesi.
Anche a livello politico internazionale Paolo VI è stato l’anticipatore di un nuovo protagonismo della Chiesa. Egli è stato il primo papa a parlare, nel 1965, alle Nazioni Unite, facendo risuonare quel «mai più la guerra» che ritornerà più volte sulle labbra dei papi dopo di lui.
Nell’ambito ecclesiale papa Montini si è innanzitutto dedicato a salvare il Concilio dalle spinte regressive che minacciavano di bloccarlo, riuscendo a far approvare, immediatamente prima della sua conclusione, un documento «rivoluzionario» come la Gaudium et spes. Ma il compito fondamentale, entusiasmante e al tempo stesso drammatico, assegnato da Dio a Paolo VI è stato di «traghettare» la Chiesa da una chiusura secolare all’apertura conciliare nella fase delicatissima del post-concilio. Un passaggio inevitabilmente segnato da spinte e controspinte destabilizzanti, che hanno inciso fortemente sia nel campo pratico – quanti abbandoni, tra il clero e tra i religiosi! – , sia in campo dottrinale, rimettendo in discussione alcuni caposaldi della visone cattolica tradizionale.
Paolo VI, da parte sua, ha testimoniato la sua piena sintonia con il Concilio sia sposandone lo spirito di apertura alla storia degli uomini, sia con gesti concreti. Per il primo aspetto, non a caso nel discorso con cui chiuse l’assise conciliare il 7 dicembre 1965, parlò di una Chiesa «samaritana», «ancella dell’umanità», incline a «messaggi di fiducia» che a «funesti presagi».
Per il secondo aspetto, già con i suoi numerosi viaggi, anticipando uno stile del tutto sconosciuto ai suoi predecessori, ma che diventerà comune con i successori, ha espresso la disponibilità della Chiesa ad «uscire fuori», portando la voce del vescovo di Roma agli ambienti sociali e culturali più disparati.
Peraltro, è significativo che il primo, nel 1964, l’abbia fatto a Gerusalemme, per inaugurare il nuovo stile ecumenico scambiando un caloroso abbraccio, dopo secoli di scomuniche reciproche, con il patriarca di Costantinopoli Athenagoras. E l’anno dopo ha indetto un sinodo dei vescovi, dando spazio per la prima volta alla collegialità episcopale.
Al tempo stesso, però, Paolo VI ha cercato con tutte le sue forze di incanalare le grandi energie sprigionate dal Concilio nell’alveo della dottrina cattolica. Lui, che era sempre stato aperto al dialogo con la cultura moderna, ha potuto meglio di tutti valutare il pericolo di uno svuotamento del contenuto dogmatico ed etico del cattolicesimo, compiuto in nome di un malinteso rinnovamento. Da qui anche l’idea di indire, nel 1967, l’anno della fede, concludendolo con una esplicita «Professione di fede del Popolo di Dio». In questa logica va letta anche la rigida presa di posizione della Humanae vitae sul tema della contraccezione.
Come Giovanni il Battista, Paolo VI non ha avuto un destino facile. Chi apre nuove vie spesso non viene compreso né da chi si barrica nella difesa del passato, né da chi, impaziente di bruciare le tappe, non sa adeguarsi alla corretta dinamica del rinnovamento ecclesiale, che non è mai una rottura della tradizione. Ma il suo coraggio e la sua sofferenza, al servizio di una Chiesa più somigliante al Vangelo, malgrado le accuse da entrambi i fronti, sono oggi anche per noi, strattonati da conservatori ciechi e da novatori scriteriati, fonte di fiducia e di pace.