Opinioni & Commenti

Paolo VI e i laici

di Alberto MigoneSono tanti i motivi che fanno di Paolo VI un gigante della storia e il tempo ne esalta sempre più la figura e l’opera. Oggi tutti riconoscono la lucida intelligenza con cui guidò e portò a compimento il Concilio e la sofferta saggezza con cui resse la Chiesa nel tormentato periodo del post Concilio. Anche certe sue coraggiose decisioni, che segnarono punti fermi e che allora sembrarono ad alcuni «chiusure», sono giudicate oggi per tanti aspetti profetiche.

Ma del resto mai mancò a Paolo VI la stima. Vi fu forse nei suoi confronti una avarizia d’amore, anche da parte di molti cristiani. Papa Montini era un tesoro che non tutti sapevano immediatamente scoprire!

Per questo a venticinque anni da quel 6 agosto ’78 il mio vuol essere un tributo di affetto e di riconoscenza: noi laici cresciuti nel clima fervido del Concilio gli dobbiamo molto, soprattutto le motivazioni forti per l’impegno, quelle che resistono alle delusioni e possono determinare scelte di vita.

Il Magistero di Paolo VI sui laici è ricco e articolato ma, a nostro parere, ha un centro unificatore, un’idea chiave che lo riassume e lo ancora al rapporto che la Chiesa intende instaurare col mondo, secondo il dettato conciliare che ben corrisponde alla sensibilità di Papa Montini. C’è un divario tra Vangelo e cultura, un dualismo che può «accentuarsi a tal punto da fare della comunità ecclesiale, un cenacolo chiuso, sequestrato dalla società in cui pure si trova e paralizzato nella sua efficienza sia dottrinale che pedagogica, caritativa e sociale» e rendere «il mondo profano insensibile ai problemi religiosi, ai massimi problemi della vita, e perciò esposto al ricorrente pericolo di credersi da sé sufficiente, con tutte le conseguenze dolorose che tale illusione porta alla fine con sé». «Occorre un ponte, che metta la vita religiosa della Chiesa in comunicazione con la vita profana della società temporale».

Ed essere ponte è la vocazione tipica dei laici cattolici e scaturisce dalla loro duplice appartenenza che ne segna anche la missione: far sintesi senza nulla «togliere» di ciò che è valido, capaci di capire le istanze e i bisogni degli uomini ma senza tradire i valori cristiani. È la fatica del «comporre senza ridurre».

Certo per essere davvero ponte le arcate devono essere robuste: e Paolo VI indica i punti di forza. Sono quelli che la formazione dei laici nella sua lunga storia ha sempre indicato e che il Papa richiama spesso con vigore. Ma anche lo studio ha un ruolo fondamentale. Serve un laicato colto, profondamente consapevole delle proprie responsabilità, preparato e attento alla realtà che lo circonda, ma anche unito e organizzato. Per dare, certo, efficacia alla sua azione, ma soprattutto perché le associazioni dei laici sono (devono essere) «scuola al senso e al servizio di Chiesa», luoghi dove ordinariamente si sviluppano quelle mature vocazioni laicali di cui la Chiesa ha bisogno.

Sono mete alte e impegnative che dopo tanti anni nulla hanno perso del loro valore, anzi il tempo le ha rese ancor più attuali.

Di Paolo VI ho un ricordo personale che mi è carissimo. Il 15 novembre 1975, durante il pellegrinaggio ufficiale della Diocesi di Firenze in occasione dell’Anno Santo, fui nel piccolo gruppo ammesso a salutare il Papa.Alla presentazione mi colpì la forza con cui ti stringeva la mano e l’attenzione che ti riservava. In quel momento si interessava davvero a te.

Quando il card. Florit gli disse che avevo incarichi di responsabilità nell’Ac mi rivolse parole di incoraggiamento che non erano formali.

Ma fu in quella stretta forte e in quello sguardo intenso che lessi tutta la sua stima e il suo affetto per i laici.

Paolo VI, il Papa che voleva salvare il mondo dal di dentro