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Palestina, il coraggio di Sharon. Ma resta il problema dei cristiani

di Romanello CantiniLa Palestina vive da qualche mese una sorta di bonaccia seppure nervosa e precaria. Dal febbraio scorso ci sono stati solo tre attentati terroristici con poche vittime e in mancanza della pace si è purtroppo costretti a consolarci anche con una diminuzione della violenza.

Per la prima volta sembra apparire anche un vocabolario comune, primo presupposto per intendersi tra palestinesi e israeliani. Abu Mazen ha definito «terrorista» l’ultimo attentato del 28 agosto ad un autobus di Bensheba e Sharon ha chiamato «terrorista» l’uccisione di palestinesi da parte di un colono ebraico e di un soldato disertore.

Lo smantellamento delle colonie ebraiche della striscia di Gaza è stato un atto di coraggio da parte del governo israeliano tanto più significativo perché compiuto senza nulla chiedere alla controparte palestinese e mettendo a dura prova la coesione della società israeliana divisa quasi a metà davanti allo spettacolo dei soldati israeliani che trasferivano con la forza dei cittadini ebrei.

Ma gli ottomila coloni da Gaza sono quasi una goccia nel mare rispetto ai duecentocinquantamila coloni ebraici che negli ultimi trentacinque anni si sono trasferiti nella Cisgiordania occupata come una ipoteca di cemento contro la restituzione della terra ai palestinesi e come una improvvisazione spontaneistica della Grande Israele sognato da molti coloni. Ben più impegnativa sarà in futuro la demolizione di questo spezzatino abusivo grande quanto il tessuto urbano di una grande città. Accade così che, quando da parte del governo israeliano non si parla di conservazione di tutte queste colonie, si ipotizza uno scambio fra nuove terre da consegnare ai palestinesi e l’annessione a Israele delle concentrazioni ebraiche più importanti.

Il dialogo già difficilissimo su questo punto può tuttavia continuare a patto che nelle prossime elezioni legislative palestinesi non prevalgano, come molti temono, gli estremisti di Hamas. Ormai anche l’autorità palestinese stenta a rappresentare il popolo di cui finora è stata considerata l’espressione indiscussa.

Il montare dell’estremismo politico si somma con il crescere dell’estremismo religioso. Fino a non molto tempo fa dei palestinesi cristiani come Habbash o come Hawamanet potevano addirittura essere dei leader dei movimenti di liberazione palestinese. Il nazionalismo fondeva insieme arabi musulmani e arabi cristiani. Oggi l’integralismo spesso non perdona nemmeno agli arabi di essere cristiani. La conseguenza e la progressiva rarefazione della presenza cristiana in Palestina dovuta non solo alla più bassa natalità e alla più facile emigrazione ma anche ad un clima di crescente emarginazione e intimidazione. Ottanta anni fa i cristiani erano la maggioranza a Gerusalemme, a Betlemme, a Ramallah. Oggi in tutta la Palestina non sono più di trecentomila.Così il dialogo fra le grandi religioni monoteistiche rischia di diventare solo convivenza fra pietre proprio laddove ciascuno ha i suoi luoghi santi. Proprio in quella Palestina dove La Pira invocava l’incontro di tutti gli eredi di Abramo e per cui diceva dopo i Colloqui Mediterranei: «Come la gallina ho cercato di riunire i tuoi figli sotto le mie ali».