Vita Chiesa

Padre Bernardino, il frate toscano che ha portato in Nigeria l’ordine francescano

Partirono in tre, nel 1984: insieme a lui c’erano padre Mario e padre Giulio. Adesso in Nigeria si contano un centinaio di frati cappuccini, e tanti giovani si preparono a fare la professione. Padre Bernardino Faralli celebra, quest’anno, settant’anni di sacerdozio: un risultato già ragguardevole, ancora di più se si sommano tutte le attività portate avanti in questi sette decenni. «Settant’anni di sacerdozio che vogliono dire anche 95 anni d’età» sottolinea, con un sorriso, nel darci il benvenuto al convento di San Francesco e Santa Chiara a Montughi, in cima a una ripida salita nella zona nord di Firenze. Novantacinque anni portati con grande lucidità e con il piacere di raccontare una vita piena di doni e di avventure.«Sono nato ad Arezzo nel 1928 – comincia – e frequentavo la parrocchia di San Domenico. Avevo appena 12 anni quando sono entrato nel seminario di Poppi, in Casentino, per fare le scuole medie». Ad accendere il desiderio di vestire il saio era stato uno zio frate: «Era il fratello di mia mamma, veniva a volte a stare da noi e mi portava con sè in giro nei vari conventi della zona. Per la verità non avevo avuto una grande impressione della vita in convento, ma quando pensai di entrare in seminario decisi subito per i cappuccini». Dopo le medie a Poppi ci furono il ginnasio a Montevarchi, il noviziato trascorso tra il convento della Maddalena a Montepulciano e l’eremo delle Celle a Cortona, il liceo tra Arezzo e Siena. La prima professione fu nel 1945; poi fu a San Miniato, a Pisa e infine a Montughi dove ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale dal vescovo di Fiesole: era il 1953.Anni che sembrano lontani, ma che padre Bernardino ricorda con tenerezza: erano tempi, dice, in cui c’era sete della Parola di Dio. Dopo l’ordinazione, fu mandato in Mugello, al convento di San Carlo, dove doveva proseguire gli studi «ma c’era tanto da fare e fui mandato a fare servizio nelle parrocchie, a tenere missioni e predicare il Vangelo». Da lì a Roma, all’università Urbaniana per la licenza in teologia e in Svizzera, a Friburgo, per gli studi in lettere e filosofia. A questo punto inizia il suo primo grande impegno: vent’anni di insegnamento, dieci a Siena e dieci ad Arezzo, per gli studenti del liceo. Per lui però era in arrivo un’altra chiamata.«Nel 1984 mi chiesero se ero disponibile ad andare in missione. Io non ci pensavo, non l’avrei chiesto. Se pensate che io possa essere utile in questo modo, risposi, sono pronto». La destinazione era la Nigeria, dove nei secoli precedenti alcuni tentativi di istituire una presenza francescana non avevano attecchito. Il primo tentativo era stato nel Seicento, ma le incomprensioni con i regnanti dell’epoca, affezionati ai sacrifici umani, li avevano portati a essere espulsi. Poi c’erano stati la malaria, i naufragi. Adesso, la provincia toscana dei cappuccini aveva deciso di tentare una nuova missione. La chiamata era arrivata dal vescovo di una diocesi nella zona interna della Nigeria, la diocesi di Onitsha, sulle sponde del fiume Niger: il vescovo era Francis Arinze, che di lì a poco sarebbe stato nominato cardinale da Giovanni Paolo II e che nel 2002 sarebbe stato chiamato in Vaticano come prefetto della congregazione per il culto divino.«Quando siamo arrivati – ricorda padre Bernardino – non c’era niente, era tutto da organizzare. Fummo ospitati a Lagos, la città più grande, in una casa dei padri Spiritani, che erano stati i primi evangelizzatori della Nigeria. Poi ci spostammo vicino a Onitsha, dove eravamo stati chiamati, e in uno spazio messo a disposizione dalla diocesi pian piano abbiamo costruito il convento. L’obiettivo era quello di fare animazione vocazionale e curare la formazione dei nuovi frati». Padre Bernardino e i suoi confratelli si presentarono col loro saio marrone: «La gente non lo conosceva, non sapeva chi fosse San Francesco d’Assisi, era molto incuriosita. Per fortuna nella cattedrale c’era una statua di sant’Antonio da Padova, raffigurato con l’abito cappuccino: la devozione per sant’Antonio era molto diffusa, non so come fosse arrivata fin lì. Ecco, dicevamo, siamo frati come lui. All’inizio ci guardavano rimanendo a distanza, poi si sono affezionati ed è nato un grande attaccamento».Insieme a loro si aggregò presto anche un giovane nigeriano, Akosa Emodi, che era andato a studiare negli Stati Uniti e lì era stato colpito dalla figura di padre Pio da Pietrelcina. Dopo aver iniziato il noviziato nella provincia americana dei cappuccini, aveva deciso di tornare in Nigeria. «Possiamo dire – afferma padre Bernardino – che il vero fondatore dell’ordine francescano in Nigeria è lui». Ben presto si aggregarono altre persone, e furono mandate a studiare a Elugu dove c’è un buon seminario diocesano. Primi semi di un albero che adesso è una piccola foresta: «In Nigeria non c’è crisi delle vocazioni, ci sono tante richieste che vengono vagliate con attenzione». La custodia di Nigeria è ancora dipendente dalla provincia toscana, e conta sette presenze in sei diverse diocesi. È significativo che oggi sono i frati nigeriani che vengono a fare servizio in Toscana: «Vengono qua per studiare, a volte restano a fare servizio, imparano l’italiano, sono molto apprezzati».In Nigeria padre Bernardino è rimasto 22 anni, qui ha festeggiato anche il 50° anniversario di sacerdozio, nel 2003. È stato superiore del convento, è stato parroco, ha curato la formazione di tantissimi giovani. Ha vissuto anche momenti difficili, che racconta con serenità: «Due volte sono stato bloccato e rapinato dai banditi, minacciato col fucile puntato». Siamo in una terra in cui i martiri purtroppo non mancano, e dove anche di recente ci sono stati sacerdoti rapiti o uccisi. I suoi confratelli si sono anche ammalati di malaria, lui no: «Ogni giorno prendevo le medicine che ci venivano fornite dal Vaticano». Al sostentamento provvedeva la provincia toscana dei cappuccini, attraverso i fondi destinati alle missioni: «Con quello che ci arrivava riuscivamo a sostenere noi e a dare qualche aiuto alla popolazione». La zona dov’è il convento non è una zona povera: «È una popolazione di contadini, molto attiva, che sa cavarsela, anche se non sempre si sa organizzare bene, ma le risorse non mancano». Già in quegli anni c’erano le tensioni con le popolazioni del nord della Nigeria, a maggioranza islamica, tradizionalmente dedite alla pastorizia: «Quando portano il bestiame al sud, a volte entrano nei terreni coltivati e rovinano il raccolto». Queste sono le cause degli scontri, su cui poi si innesta il rischio di uno scontro tra religioni. Un’alimentazione che vede riso, patate, oppure una specie di pappa fatta con la yam, una pianta che cresce lungo i fiumi. «Basta sapersi adattare» dice padre Bernardino.La lingua per la predicazione e per le celebrazioni era l’inglese: «È la lingua che tutti capiscono, hanno idiomi locali che però variano da una zona all’altra. Adesso che ci sono molti frati nigeriani, dicono la Messa anche nelle loro lingue locali. Mi è dispiaciuto invece che si usi meno il latino: quando sono venuto via ho raccomandato che dicano la Messa in latino almeno una volta la settimana, per sentire l’universalità della Chiesa. Quando qualcuno di loro viene a Roma, è contento di poter usare il latino per parlare con altri religiosi».Nel 2006, a 78 anni, il rientro in Italia: «Per tanti anni sono stato assistente dei francescani secolari della Toscana». Un compito che lo ha portato a girare e a conoscere tante persone. E per tanti anni è stato confessore nella cattedrale di Firenze: «Con la pandemia ho interrotto, adesso forse potrei anche riprendere». A 95 anni padre Bernardino ha ancora voglia di far conoscere il Vangelo, Gesù, san Francesco: «Ho ricevuto tanto, e mi piace cercare di restituire quello che posso».