Opinioni & Commenti
Orientamento scolastico: gli «spot» della sopravvivenza
di Bruno Meucci
Esiste nella scuola italiana un’attività che poco o niente ha a che fare apparentemente con la didattica ordinaria, ma che comunque è presente in qualunque Piano dell’Offerta Formativa di qualsiasi istituto scolastico: l’orientamento. Per orientamento s’intende l’aiuto offerto agli alunni della propria scuola a scegliere bene il tipo di studi da compiere negli anni successivi, che sia la scuola di grado superiore o l’università. L’orientamento è un’attività di vitale importanza per il percorso scolastico di un giovane. È un supporto che gli viene dato per conoscersi meglio e proiettarsi in un futuro in cui dovrà scegliere un tipo di scuola invece di un’altra. L’ultima riforma (2010) ha semplificato il quadro delle scuole superiori di secondo grado rendendo così più facile, rispetto a prima, il compito di individuare la scuola da scegliere. Tuttavia, nell’ottica di operare tagli alla spesa pubblica, ha fissato per le scuole superiori di secondo grado una quota minima di 27 alunni per classe. Per una scuola può significare la perdita di una sezione, il licenziamento di qualche docente, la riduzione dei finanziamenti del Ministero. Ogni scuola pertanto è obbligata a mantenere alto il numero dei propri iscritti, promuovendosi e facendosi pubblicità presso le scuole di grado inferiore.
E qui siamo al punto. Come si può conciliare la pubblicità con l’orientamento? L’orientamento si attua per il bene del ragazzo, per aiutarlo a non sbagliare la scelta degli studi. L’orientamento è uno strumento che rende possibile il godimento di un diritto costituzionale. La Costituzione italiana prescrive infatti che ciascuno sia posto nelle condizioni di scegliere lo studio che desidera. La pubblicità, invece, è fatta per interesse della scuola, per non chiudere una sezione, per non licenziare un insegnante o per continuare a ricevere finanziamenti dallo Stato. Queste due attività, orientamento e pubblicità, così contrarie per le finalità che perseguono, nella scuola italiana si mescolano, si confondono e danno vita a spettacoli aberranti. Per prendersi la fetta più ghiotta di alunni, le scuole fanno a gara nel mostrarsi sotto la luce migliore. Inventano corsi, potenziamenti, sperimentazioni, progetti, strutture, laboratori, stages e attività di ogni genere, che spesso esistono solo sulla carta patinata di un depliant. Ogni scuola inoltre, se vuole essere competitiva, non può non avere almeno un video da proiettare agli incontri di orientamento. In questi film, tra immagini e musiche seducenti, fanno la loro comparsa personaggi importanti come il sindaco, l’assessore, l’industriale o l’ex alunno di successo, diventato magari parlamentare, come a dire che se ti iscriverai a questa scuola anche tu avrai l’opportunità di diventare un personaggio importante. Invece di guidare la scelta dei ragazzi in base a criteri di opportunità e di ragionevolezza, si sbandierano i traguardi raggiunti dagli alunni della propria scuola, i concorsi vinti e i primi premi ricevuti. I professori si fanno accompagnare spesso da alunni che dichiarano ai microfoni quanto è bella, ricca e stimolante l’offerta formativa del loro istituto e come sono contenti di studiare quello che studiano, facendo la figura dei pappagalli ammaestrati a dire sempre la stessa cosa. Alcune scuole, poi, si presentano con slogan inverosimili, come ad esempio «scuola dell’accoglienza», se il messaggio vuole essere rassicurante, o «scuola dell’eccellenza», se vuole far leva sull’ambizione delle famiglie.
Spesso le scuole lanciano un messaggio competitivo: la vita è lotta, è difficile trovare lavoro, devi pensare subito a un’istruzione migliore di quella degli altri se vuoi fargli le scarpe quando sarai fuori.
Questo spettacolo, tra il ridicolo e l’indecente, si svolge ogni anno nei mesi in cui sono aperte le iscrizioni, con la conseguenza che la formazione diventa un prodotto da vendere e la scuola si trasforma in agenzia pubblicitaria improvvisata.
Sia ben chiaro, non si vuole dire che la concorrenza tra le scuole non sia uno strumento anche positivo: in teoria dovrebbe stimolare la creatività, il rinnovamento, e spingere le vecchie istituzioni scolastiche italiane al miglioramento.
Il problema è che questo non avviene nella sostanza, ma soltanto nella forma, cioè nell’ideare il modo più accattivante con cui presentarsi.
Nella sostanza, la scuola italiana non migliora, perché gli insegnanti meno capaci sono inamovibili, difesi dai sindacati e recalcitranti a qualsiasi cambiamento, i soldi sono sempre pochi e le iniziative migliori sono sempre appannaggio di quegli insegnanti di buona volontà che donano tempo e risorse senza interesse, per passione educativa e per il bene degli alunni. Purtroppo, l’alunno è un numero per raggiungere quota 27 ed essere mostrato come un fenomeno da baraccone se vince un premio che getta lustro sulla scuola.
Le scuole dovrebbero ribellarsi a questo declassamento, a questa lotta tra poveri, a questa guerra di tutti contro tutti.
Ribellarsi significa tornare a puntare sulla sostanza e non sull’immagine. Significa iniziare a collaborare lealmente con le altre scuole per offrire a tutti ampia scelta e occasioni serie di formazione, sulla base concreta di ciò che ogni scuola è in grado di offrire.