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Orbassano, brandine per i pazienti nella cappella dell’ospedale, Don Gambino: “Da dentro il casco i malati ti parlano con gli occhi”
“Come sacerdoti siamo disponibili e la cappella è a disposizione in caso di necessità. Non mi scandalizzo certo di avere i malati in chiesa, ma forse ci si poteva muovere in modo diverso”. Con queste parole don Luciano Gambino, assistente spirituale all’Ospedale S. Luigi Gonzaga di Orbassano, riconvertito al 50% in Covid Hospital, commenta al Sir l’allestimento nella cappella interna di una trentina di posti letto per malati Covid con sintomi lievi ma che non possono ancora essere dimessi. Durante la prima ondata della pandemia un intervento analogo aveva interessato la cappella dell’Ospedale Martini di Torino, altro presidio tra i 16 individuati dall’Unità di crisi della Regione Piemonte come quelli dedicati alla cura dei pazienti positivi più gravi.
L’allestimento notturno. Nella giornata del primo venerdì di novembre hanno iniziato a diffondersi le immagini delle brandine disposte là dove fino a qualche ora prima nella cappella dell’ospedale di Orbassano c’erano i banchi per i fedeli. “Sono stati allestisti anche 45 posti nella sala convegni”, spiega, “ma tutt’ora (martedì 10 novembre, ndr) in chiesa non c’è alcun ricoverato”. La decisione della Regione e dell’Unità di crisi sembra aver colto tutti di sorpresa. “Né la direzione sanitaria né noi assistenti spirituali siamo stati coinvolti prima che si procedesse all’intervento”, sottolinea don Gambino con un po’ di amarezza. “Per i malati occorrono apparati sofisticati di monitoraggio e in chiesa non ci sono neanche prese di corrente a sufficienza”, prosegue il sacerdote, evidenziando come “anche noi siamo in difficoltà perché, per esempio, non abbiamo più accesso alla nostra camera e non sappiamo dove celebrare la messa”.
In prima linea nei reparti. Positivo al Covid-19, contratto molto probabilmente nelle corsie dell’ospedale, don Gambino è attualmente in isolamento domiciliare, praticamente asintomatico, segnato solo da un po’ di stanchezza. Fino a pochi giorni fa era incessante la sua opera tra i ricoverati, insieme a don Ihor Holynskyy che continua a frequentare reparti e malati. È qui infatti, più che in cappella, che gli assistenti spirituali vivono quotidianamente il loro ministero.
“In terapia semi-intensiva – racconta don Gambino – i pazienti hanno un casco trasparente in testa e cercano di comunicare, ti parlano con gli occhi e chiedono: ‘Aiuto! Don, prega per me’”.
Momenti intensi, situazioni nelle quali la presenza di un assistente spirituale va al di là del semplice conforto. “Ho confessato un paziente in semi-intensiva e, per comunicare, abbiamo utilizzato un pennarello e dei fogli di carta. Al termine, piangeva di commozione e ha chiesto anche di fare la comunione ma non è stato possibile perché non poteva togliere il casco”. “È stato un episodio toccante”, rivela il sacerdote. “Dai pazienti in terapia intensiva andiamo solo nel caso che ci chiamino i parenti per l’Unzione degli infermi”, aggiunge don Gambino. Invece, con quelli “in bassa o media intensità mi è capitato di pregare, di dare la Comunione, di ascoltare; c’è molto bisogno di compagnia, di condivisione – conferma –.
I pazienti vogliono parlare ed essere ascoltati, anche perché sono soli,
nessun parente può entrare”. Nei reparti si avverte “paura, angoscia, solitudine”, ammette il cappellano. Dai pazienti è come “sentire un grido: ‘Don, voglio farcela’. È quasi un’invocazione, consapevole, perché la stragrande maggioranza dei pazienti è lucida”.
Il contagio dell’empatia. Se questi mesi di convivenza con la pandemia ci hanno imposto il distanziamento interpersonale, una volta superata questa fase
“avremo bisogno di avvicinamento sociale, personale, umano”,
afferma con convinzione: “Non possiamo star senza condividere, ascoltare”. “Tutti, malati o sani, abbiamo bisogno di un abbraccio, di un sorriso, di una stretta di mano, di un bacio, di una parola, di una preghiera”, aggiunge il sacerdote. “Il virus ci dice che dobbiamo diffidare di tutti perché potenzialmente untori, questo è brutto”, osserva il cappellano, secondo cui “il rischio è che aumenti la crisi da un punto psicologico, sociologico e di identità umana”.
“Dobbiamo evitare il pericolo che prevalga una visione solitaria e che ci isoliamo ulteriormente – conclude don Gambino – mettendo in campo una carica affettiva, religiosa, spirituale e umanitaria che superi questa diffidenza dilagante. Dobbiamo evitare che la pandemia distrugga la relazione, la carità, la generosità, la forza interiore dell’umanità più bella e vera”