Toscana

Ombelichi al vento e cavalli sotto ai ginocchi…

di Lorella PellisGli ombelichi del mondo si sfidano a duello. Puoi incontrarli nelle piazze o nelle strade, all’aperto o al chiuso, a manifestazioni no-global come pure a raduni global, in versione tempo libero ma anche dentro compassati uffici di rigorose professioniste. Eppure non si tratta di un duello all’ultimo sangue. Non ci sono spade né spadaccini. La parola d’ordine è chiara e semplice: moda. E in questo caso non conta se le pancine – o più spesso panciotte – in bella vista siano davvero un bel vedere.

L’importante è seguire ciò che fa tendenza, sentirsi à la page insomma, anche se non si ha la silhouette giusta. E questa estate gli ombelichi del mondo – meglio se ravvivati da piercing o tatuaggi in zona – furoreggiano davvero mentre fuoriescono da magliettine ine ine, attillate attillate, che a malapena permettono di respirare. È questa la moda dalla vita in su. Non dona a tutti, diciamo la verità, ma è riuscita a stregare le quattordicenni come le sedicenni, le diciottenni e le ventenni ma anche coloro che i vent’anni li hanno oramai lasciati alle spalle. Dall’ombelico in giù invece spopolano i pantaloni a vita bassa, anzi bassissima con un cavallo che arriva, o meglio, strascica a terra.

Fondamentale il perizoma o la mutanda a vista, spesso con disegni fumetto o cartoon sicuramente autoironici oppure con motivi osé. Il look è poi rifinito dagli infradito ai piedi, di varie fogge e colori, classici o sportivi, adatti per ogni occasione. È questa la moda che si vede nelle strade e che Valentino ha bocciato alla grande. «Stile è cultura, no agli stracci», ha dichiarato lo stilista scagliandosi contro il cattivo gusto imperante.

«Questo modo di vestire, trasandato ma non casuale, è un insieme di proposte del sistema moda ma che poi sono state prese e fatte proprie dalla strada e a volte accentuate fino ad arrivare all’esasperazione», afferma Francesco Martini Coveri, nipote del noto stilista pratese Enrico Coveri. «La mutanda a vista è uno strascico di quello che poteva essere una proposta di quattro-cinque anni fa ma poi si è estremizzata fino ad arrivare all’abbinamento con dei jeans che hanno il cavallo sotto il ginocchio».

Nonostante tutto, secondo Martini Coveri, che cura l’ufficio stile ovvero la gestione delle varie linee del marchio Coveri che ha la sede storica sul Lungarno Guicciardini a Firenze, «ci sono persone perfette vestite così, altre ridicole. Penso che ognuno di noi ha un carattere che poi afferma anche con la propria fisicità, ma sempre in gioco è quello che uno va a rischiare seguendo delle particolari tendenze». Spesso non si tiene conto che la moda deve vestire il carattere di una persona. «La moda – continua il giovane stilista, anch’egli pratese come tutta la dinastia dei Coveri – dovrebbe dare dei consigli, come succedeva alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta, quando veniva vissuta come un’idea. Adesso penso che sia andata inseguendo quello che è un po’ il quotidiano, vissuto in modo diverso da ciascuno. Andare troppo incontro a quelle che sono le esigenze di tutti i giorni non è il lavoro della moda che invece deve dare un’idea, uno spunto che tutti i giorni ci caratterizzi facendoci differenziare dagli altri».

Le scelte dei giovani rispondono anche a come va la società oggi. «Non penso che tutto giri nel senso giusto – afferma Martini Coveri – e di conseguenza un modo per differenziarsi e farsi vedere può essere quello di attaccarsi a qualcosa di più particolare. Inoltre nessuno si preoccupa di vedere i propri limiti, di capire cosa ha di migliore rispetto a un altro per valorizzarlo. Oggi la maglietta con l’ombelico di fuori va bene sia a uno con gli addominali tosti sia a chi ha chili di troppo. D’altra parte si pensa che tutto sia tollerato perché si vedono in giro persone che fisicamente non si curano e si vestono come a volte anche chi si cura fa difficoltà a reggere. Una curiosità: io non porto magliette attillate perché non ho il fisico adatto nonostante sia quasi due metri e possa sembrare magro e atletico».

È un marchio di riconoscimentodi Andrea Fagioli«Il modo di vestirsi è anzitutto un modo per attirare l’attenzione, per mettersi in vista, per riuscire a creare un contatto sia con i coetanei che con gli adulti. In poche parole, una ricerca di riconoscimento».Ne è convinto don Flavio Rosa, bergamasco, che da un anno condivide con don Giuseppe Caglioni, anche lui di Bergamo, la responsabilità della pastorale giovanile in diocesi di Livorno, una diocesi che da sempre guarda con particolare attenzione al mondo dei ragazzi tanto da avergli dedicato, per la prima volta in Italia, un sinodo tutto per loro. Ma parlando con i giovani, don Flavio non riscontra in loro la consapevolezza che ci sono dei momenti in cui il modo di vestirsi o di agghindarsi, anziché valorizzare, peggiora l’aspetto fisico. «A proposito di piercing, di tatuaggi e di pantaloni sotto i piedi» ammette di avere avuto qualche discussione anche all’interno degli scout riscontrando «un po’ di fatica nel fare ammettere che alcune scelte sembrano dettate da una mancanza di rispetto nei confronti del proprio corpo».

«Una ragazza che studia come infermiera professionale mi diceva – racconta ancora don Flavio – che nel suo corso c’erano stati dei problemi ad accettare una ragazza con il piercing. Io ho cercato di farle comprendere come una persona ammalata ha bisogno di essere rincuorata riguardo alla propria salute e che quindi potrebbe avere delle difficoltà a mettersi nelle mani di un’altra persona che dimostra di non avere troppo attenzione o cura del proprio corpo». Nell’abbigliamento di questa estate, don Flavio nota «un’uniformità verso una certa trasandatezza» che sembra dimostrare, oltre ad una mancanza di idee, una mancanza, soprattutto da parte dei giovanissimi, «di cura nel presentarsi all’altro». Provenendo da Bergamo ed essendo stato a Roma, don Flavio azzarda anche un paragone tra le varie realtà: «Qui a Livorno – dice – mi sembra maggiore la trascuratezza nell’abbigliamento: si vedono ad esempio molti più giovani con i capelli rasta. Ma se provi a discuterci, li trovi pronti ad invocare la libertà personale piuttosto che dimostrasi disposti ad approfondire il motivo di certe scelte, di certi atteggiamenti».

A questo proposito, «bisogna anche notare – conclude il sacerdote bergamasco – un certo declino nella capacità di dialogo, collegato ad un linguaggio sempre più povero. E l’impoverimento del vocabolario significa anche un impoverimento di concetti. Quindi si fa fatica, a volte, ad arrivare ad un confronto aperto a tutto campo, moda e tendenze compresi».

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Mutande con vista (di Umberto Folena)