Lettere in redazione

Occasionali «Ulisse» nel carcere di  Sollicciano

Osservato dalla superstrada, con l’occhiata distratta del viandante, Sollicciano mostra il suo aspetto migliore e non scostante. Ma visto da vicino, situato in quell’informe periferia, che oggi è in uso chiamare non luogo, là dove il cemento confina con desolati campi in attesa di lottizzazione, il carcere assume l’aspetto un po’ sinistro di una munita fortezza dove custodire pericolose presenze. L’occasione della visita è stata data da uno spettacolo teatrale recitato dagli ospiti della istituzione ed allestito da una intelligente e brava regista che non ha avuto la saggezza di far rappresentare, a quegli occasionali Ulisse, le proprie odissee personali valorizzandole con soluzioni sceniche di forte impatto espressivo.

Ne è risultato uno spettacolo umanamente coinvolgente che ha toccato intense punte emotive in alcuni monologhi, fra cui quello di Penelope, emblema di tutte le Penelopi sparse nel nostro mondo, in perenne attesa di un ritorno del loro Ulisse sempre sospeso fra speranza e tragedia. Il successo è stato grande e colmo di emozione per i protagonisti e per il pubblico ed è scaturita una spontanea, sia pur momentanea, umana vicinanza. Ed è questa vicinanza che ha reso impellente una domanda: ma chi sono queste persone, in gran parte giovani, che si trovano in questa triste situazione e per quale motivo si trovano in questo luogo? Ovviamente sono cose che non è dato conoscere. E allora si consultano le statistiche e si fanno scoperte che lasciano stupefatti. Un rilevante numero di quelle persone ha commesso piccoli reati: furtarelli nei supermercati, o in negozi di vestiario o appropriazione di varia e povera miscellanea. Tutti, però, colti sul fatto con immediata conseguente  carcerazione. Colto sul fatto anche colui che acquista droga, oggi considerato reato, così come oggi è reo il clandestino privo di documenti. Quindi si fa un’altra scoperta: che un’altissima percentuale di questi reati non giunge a processo e viene prescritta per decorrenza di termini. Questo a causa dell’enorme numero di casi a fronte della inadeguatezza delle strutture giuridiche e delle loro complesse procedure. Quindi le persone in questione restano in carcere finché non scadono i termini di carcerazione preventiva, aggravando nel frattempo quel drammatico sovraffollamento che costringe i detenuti in uno spazio di convivenza di estrema angustia che costringe i detenuti in uno spazio di convivenza di estrema angustia per ventun ore al giorno.

La giustizia non ha, in molti casi, il nobile aspetto di Atena, ma bensì il volto bendato di una Dea con le labbra stirate in un beffardo sogghigno. Fortunatamente la città esprime una sua ammirevole «pietas» affidandosi ad una sparuta pattuglia di buoni samaritani, credenti e non credenti, che si recano in quel luogo di dolore per ristabilire quel rapporto umano che impedisce alla persona di scivolare nel gorgo della non identità. Tendere, insomma, una mano per riaccendere una speranza su cui ricostruire un futuro. Ma le sfortune presenti nel mondo non possono essere affidate alla cura di pochi volenterosi missionari del bene autentici rappresentanti di una responsabilità sentita come etica che è alla base di ogni piena democrazia. L’insofferenza, o addirittura l’odio, generato dalle ingiustizie, è destinato a raggiungere, per vie imprevedibili, la soglia delle nostre case fino a lambire, o addirittura scuotere l’apparente sicurezza della nostra prosaica quotidianità.

Poiché non esistono più lontananze; ma prossimità. Che lo si voglia o no la storia ha voltato pagina e ci richiede una corresponsabilità. Cioè una cittadinanza. Cittadini della nostra città. Cittadini del Paese dove siamo nati e che ci ha donato lingua, cultura, usi e costumi per divenire persone ed infine, con questa nostra identità, cittadini del mondo. Perché questo sembra essere lo spirito del tempo. Ed è alla sua chiamata che dobbiamo responsabilmente e democraticamente rispondere.

Questa lettera, vergata minuziosamente a mano, ci è arrivata per posta, ma senza firma. Normalmente cestiniamo le lettere anonime. Questa volta facciamo un eccezione, sia perché si tratta probabilmente di una semplice dimenticanza, sia perché ci sembra un documento autentico che può far riflettere. La rappresentazione teatrale a cui fa riferimento – «Odissea – ovvero storia di Ulisse, immigrato clandestino» – è stata portata in scena all’interno del carcere fiorentino il 22 e 23 giugno scorsi, da parte della Compagnia di Sollicciano, formata da attori-detenuti e con la regia di Elisa Taddei dell’Associazione Krill Teatro. Un progetto davvero meritorio, sostenuto dalla Fondazione Carlo Marchi e dalla Regione Toscana e che ha coinvolto per un anno 20 detenuti per la maggior parte nord-africani.

La lettera, oltre a sensibilizzarci sulla dolorosa realtà del carcere, dovrebbe farci riflettere anche sulle distorsioni del nostro sistema giudiziario (sono quasi sempre i «pesci piccoli» a finire in cella) e sull’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva. Basti pensare che i detenuti in attesa di giudizio (per i quali dovrebbe ancora valere la presunzione di innocenza, sancita dalla Costituzione) sono poco meno della metà dei reclusi. Al 31 maggio 2011 nelle carceri italiane su 67.174 detenuti, solo 37.257 scontavano una condanna definitiva.

Claudio Turrini