Opinioni & Commenti

Obbligo scolastico a 15 anni: un’opportunità per i più deboli o un alibi per l’esclusione sociale?

di Giuseppe Savagnone

Giudizi fortemente discordi hanno accolto l’emendamento con cui la commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha stabilito che si possa «assolvere anche nei percorsi di apprendistato l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione» e cioè, in altre parole, che sia possibile iniziare l’apprendistato anche a 15 anni (come era previsto dalla riforma Moratti del 2003) senza venir meno all’obbligo d’istruzione fino ai 16 anni, introdotto nel 2006 dal ministro Fioroni.

Questo, agli occhi di coloro che contestano il provvedimento (il Pd, i sindacati, la Confap, che riunisce i Centri di formazione professionale di ispirazione cristiana), comporterà di fatto la vanificazione dell’obbligo scolastico. Secondo i suoi sostenitori (governo e Confartigianato), invece, si tratta di una misura che da un lato valorizza il senso educativo del lavoro, dall’altro riscatta dall’inattività tutti i ragazzi e le ragazze coloro che attualmente non riescono a completare gli studi e che, non avendo ancora 16 anni, restano esclusi dai circuiti lavorativi.

Come spesso accade in occasione di questi scontri frontali, ognuna delle due tesi ha la sua anima di verità, anche se è difficile essere d’accordo senza riserve sia con l’una che con l’altra. È un dato incontestabile che oggi in Italia si registra una dispersione scolastica di circa 126.000 ragazzi tra i 14 e i 17 anni che abbandonano i percorsi di istruzione e formazione professionale senza conseguire una qualifica o un titolo di studio e che molti di questi sono condannati ad attendere con le mani in  mano di compiere i 16 anni per poter cominciare a lavorare, oppure ad accettare di farlo, prima di allora, «in nero».

Appare ragionevole, da questo punto di vista, la scelta di offrire a questi giovani un’alternativa ai percorsi formativi che sono incapaci di seguire, consentendo loro di adempiere all’obbligo in altro modo, e cioè avvalendosi delle potenzialità educative che derivano dall’esercitare un lavoro. Perché – e anche questo è vero – c’è una «sapienza artigiana», una «intelligenza delle mani», invece che dei libri, a cui un artigianato ben fatto può formare assai meglio che studi trascinati senza attitudini e senza voglia.

Due domande, però, gravano su questo logicissimo ragionamento. La prima riguarda la responsabilità del nostro sistema educativo riguardo alla dispersione scolastica. Non sarebbe più logico, invece di darla per inevitabile, combatterla più efficacemente, aumentando – invece che tagliando (come di fatto fa il governo) – le risorse indirizzate a questo scopo? Quanti di quei 126.000 giovani sarebbero in grado, se aiutati davvero, di completare il loro liceo o il corso di formazione professionale?

La seconda domanda concerne la qualità educativa del lavoro. Certo, esso può averla. Può. A precise condizioni, che andrebbero rigorosamente controllate. Ma c’è da chiedersi se uno Stato che non è riuscito a far adempiere l’obbligo scolastico (e tante altre cose: si pensi all’evasione fiscale!) sarà in grado di far rispettare queste condizioni e di evitare che, in pratica, la nuova normativa si risolva in un ritorno al tempo in cui i figli dei poveri – non certo quelli dei professionisti! –, invece di formarsi, andavano a lavorare, rinunziando a una crescita umana e a una qualificazione culturale che li avrebbero accompagnati per tutta la vita. Se così fosse, l’emendamento, piuttosto che un’opportunità per i più deboli, sarebbe un alibi per consacrare definitivamente la loro esclusione sociale.