Opinioni & Commenti
Nucleare, anche sull’atomo scontri a suon di pregiudizi
di Claudio Turrini
In Italia nessuno ammette mai le sconfitte. Si perdono le elezioni e poi candidamente ci si vanta di aver ottenuto «uno zero virgola» in più rispetto ad un qualche sondaggio della vigilia. Si annunciano «spallate» epocali al governo e si dà la colpa del fallimento a qualche parlamentare voltagabbana. Si mettono alla firma del Quirinale decreti formalmente irricevibili, come quello sul fisco municipale, e dopo che sono stati bocciati si ha la faccia tosta di dire che era logico e prevedibile e che vi si porrà subito rimedio.
Non sfuggono a questo sport italico neanche le sentenze della Corte Costituzionale. Come quella recente sul nucleare (relatore il fiorentino Ugo De Siervo), che ha bocciato l’art. 4 del decreto legislativo n. 31 del 15 febbraio 2010, che disciplina la localizzazione, la realizzazione e l’esercizio di impianti di produzione di energia elettrica nucleare.
«La Corte Costituzionale ha accolto il nostro ricorso contro il Governo sul nucleare dove sostenevamo che le Regioni devono esprimere il proprio parere, prima della decisione definitiva, per la costruzione di impianti nucleari. Va da sè che noi siamo contrari», ha commentato su facebook il presidente della Toscana Enrico Rossi. Di «vittoria» ha parlato Nichi Vendola, governatore della Puglia, altra regione ricorrente, assieme all’Emilia Romagna e fieramente schierata contro il ritorno all’atomo. Neanche una parola sugli altri 28 quesiti, sempre sul nucleare, bocciati dalla Consulta.
Da parte sua il sottosegretario allo Sviluppo economico. Stefano Saglia, ha giudicato la sentenza come «non negativa» perché «il coinvolgimento delle Regioni è ampiamente riconosciuto nei provvedimenti intrapresi dal Governo. Vogliamo rilanciare il nucleare ha dichiarato attraverso un dialogo costruttivo con gli enti locali e non imporlo manu militari». Già, ma se così è, perché il decreto del governo non prevedeva come obbligatorio il parere della regione interessata? Misteri di una politica che troppo spesso preferisce gli annunci roboanti ai fatti concreti. E che sul nucleare ha imboccato una strada che forse non porterà a nulla. Perché in democrazia certe scelte si possono fare solo con il consenso dei cittadini.
L’Italia è uscita dal nucleare nel 1987, dopo tre referendum abrogativi di norme sostanzialmente di poco conto, ma che erano state presentate come un «sì» o un «no» a questa tecnologia. Sull’onda emotiva del dopo Chernobyl votarono in tanti e quasi all’80% per il «sì». Col senno di poi è facile dire che fu un errore che abbiamo pagato caro. Oggi l’energia ci costa più che agli altri paesi occidentali, quasi tutti con una buona fetta di nucleare. Ne importiamo una discreta quantità da centrali atomiche poste a poca distanza dai nostri confini e che in caso di incidenti sarebbe come averle in casa, con tutti gli svantaggi del caso e nessun vantaggio.
Nel business dell’atomo siamo già tornati, con l’Enel che costruisce e gestisce centrali all’estero. Ma prima di vederne delle nuove in Italia dovrebbero passare come minimo 15-20 anni. Il complesso iter di localizzazione e costruzione di questi impianti necessità da sé tempi lunghi. Da noi si protrarrebbero in estenuanti bracci di ferro con la popolazione, annullandone la convenienza anche dal punto di vista economico. Facciamo fatica a costruire impianti di compostaggio, figurarsi centrali nucleari o siti di stoccaggio delle scorie.
E sul percorso incombe anche un referendum, proposto dall’Idv e già ammesso dalla Corte costituzionale. Negli ultimi anni non hanno mai raggiunto il quorum ma questa volta il rischio potrebbe esserci. Perché i pregiudizi ideologici sono duri a morire.