Opinioni & Commenti
Non si educa con la paura. I ragazzi aspettano una mano forte
di Franco Vaccari
La paura divide, chiude in se stessi, spinge a centrare tutto sulla propria sopravvivenza. La paura erige difese oltre il necessario, costruisce muri talmente spessi che diventano carceri per coloro che li realizzano. La paura spezza le relazioni di ogni tipo ad ogni età. Alla naturale fiducia si sostituisce la diffidenza tra compagni, colleghi, fratelli, sposi, cittadini, gruppi, nazioni; tra figli e genitori, tra giovani e adulti. E se i figli, i giovani, non vivono dentro questa relazione forte, per loro non c’è futuro.
Dunque il discorso sui giovani, se non vuole essere retorica, si sposta naturalmente sugli adulti, sui padri e sulle madri, e sulla relazione di questi con i figli. La relazione apre al futuro, non altro. È ingannevole che la si possa sostituire con intelligenze naturali o artificiali, proiezioni, previsioni, progettazioni, tecnologie e scienza. Ogni altro genere di apertura non sostituisce in nulla l’apertura della relazione primordiale.
Le civiltà contemporanee fissano sulla cura dei bambini e sul sostegno verso gli anziani gli indicatori di buona salute sociale e trasmettono i fondamenti stessi della loro sopravvivenza in immagini e simboli di relazione con il divino, tra amici e compagni, nell’educazione e nelle diverse forme di discepolato. Rotta la relazione, l’ombra dell’albero del giardino di Genesi, si estende nei nostri giardini: la dinamica della superbia innerva progressivamente ogni forma di autosufficienza e torna a spezzarsi la relazione. Nei sommovimenti delle epoche di rapida trasformazione le rotture sono profonde come faglie tettoniche, fratture insanabili, ferite non rimarginabili per lungo tempo.
Ma nella terra ferita dall’aratro entra il seme, nel cuore ferito dall’incontro entra l’altro, nei conflitti che non distruggono ma che inesorabilmente feriscono si costruiscono alleanze. Altro infatti è ferire, altro è rompere, disunire. Diabàllein dicevano i greci per tutto ciò che separa inesorabilmente. Mentre simbàllein usavano per esaltare tutto ciò che unisce: «sumballein dexiàs allèlois», sapranno «stringersi scambievolmente la destra», dicevano per definire un patto invincibile.
Così, anche le giornate della gioventù possono essere considerate in tale prospettiva di alleanza, senza isolare i giovani in un approccio giovanilistico, ma come opportunità di nuove ed efficaci relazioni. Ogni muro visibile o comunque palpabile trae origine da recinti mentali. Non accontentarsi, ma provare e riprovare, sperimentare: non si educa con la paura. Nella paura si costruiscono identità chiuse, difese, oppositive, fondamentalistiche. In principio il coraggio: rilanciare una proposta dal sapore antico a una generazione nuova; farsi spazio accogliente assumendo l’umano che si trasforma e riproponendo il divino che non muta; professare la fede in Gesù Cristo che disarciona e rialza, acceca e illumina, ferisce e risana: comunicabile, incontrabile, possibile. I tanti giovani descritti da Benedetto XVI, «feriti dalla vita, condizionati da una immaturità personale che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive e libertarie e di esperienze negative e traumatiche», attendono l’incontro con una mano forte che non li abbandoni.
Nella gratuità di un incontro autentico, i momenti collettivi si trasformano in laboratori di umanità. Ogni Chiesa locale può diventare, oggi, un’inedita officina humanitatis, dove sorgono i segni del futuro; non nell’aspetto esteriore, ma nelle pieghe delle comunicazioni intime, nelle emozioni che si trasformavano in propositi di vita, nelle plurime sollecitazioni che si sintetizzano in abbozzi di progetti di civiltà.