Relatore d’eccezione per un argomento così importante nell’era dei media è stato don Tonino Lasconi, autore di numerose ed apprezzate pubblicazioni per catechisti e per ragazzi. Nell’incontro il sacerdote si è ricollegato al tema già affrontato nel convegno pastorale diocesano di settembre alla Verna, insistendo sulla necessità di dire Cristo alle nuove generazioni con un linguaggio appropriato e significativo in cui la parola, pur sempre insostituibile, sappia cedere il posto ora all’immagine, ora al gesto simbolico, ora alla molteplicità dei linguaggi integrati. Tutto questo, non per puro compiacimento estetico, ma per riproporre, nella dinamica dell’Incarnazione, l’idea che nessun mezzo sia da disdegnare quando è veicolo per «comunicare il Vangelo in un mondo che cambia».Don Tonino, qual è il ruolo della comunicazione nella catechesi?«Di per sé dovrebbe essere il fondamento della catechesi, perché se la catechesi è fatta per comunicare serve a qualcosa; se invece non comunica ma giustappone sopra a bambini e ragazzi delle nozioni che loro non recepiscono dentro purtroppo non serve a niente, e l’esperienza mi pare che stia a dimostrarlo».Come dobbiamo comportarci ?«Bisogna cambiare profondamente le finalità ed il metodo della catechesi. La finalità perché non dobbiamo dare per scontato che i ragazzi abbiano la fede solo perché hanno ricevuto il Battesimo, ma dobbiamo avere la capacità del missionario, cioè di colui che va a cercare di raggiungere l’altro, a creare degli stimoli, delle emozioni, delle domande e a dare delle risposte. Per fare questo ci vuole un metodo che sia interlocutorio. Occorre pensare e sperimentare quello che la Chiesa propone».Secondo lei è una impresa difficile ?«È una impresa difficile perché cozza contro una mentalità che si fa fatica a vincere, una mentalità di chiesa-società, cioè di una chiesa che dava per scontato che tutti quanti fossero cristiani. È difficile perché ci sono tante persone inchiodate lì che non riescono a guardare la realtà ad occhi aperti: a volte è più difficile qui di come potrebbe esserlo in Paesi di missione, perché c’è gente che crede di essere cristiana, ma non ne ha le motivazioni. Bisogna tornare ad una mentalità dell’ “andare”, non aspettare che vengano o – peggio – pretendere che vengano»E soprattutto è importante la semplicità?«Semplicità non nel senso di fare i sempliciotti, ma di tornare all’essenziale, cioè di dire quello che è il fondamento della fede cristiana, aspettando che mano a mano si completi l’acquisizione della fede. Ci vuole una Chiesa che ammetta ai Sacramenti, ma poi accompagni, non una Chiesa che dica “si deve fare così” perché non ha più nessun potere di imporlo».Cosa si sente di dire agli operatori?« Di entrare in questa mentalità di appassionati del Vangelo e di appassionati della comunicazione, di non andare a fare i “professorini della fede”, ma di essere missionari, come mentalità e come linguaggio. Per andare a fare il missionario bisogna parlare come la gente del posto: se vado in Cina devo parlare cinese; se parlo ai giovani d’oggi devo parlare il loro linguaggio, altrimenti parlo a vuoto».Silvia Mancini