Opinioni & Commenti
Non lasciare la famiglia in balìa del mercato
di Pierpaolo Donati
La famiglia è la grande sfida, e insieme il grande enigma, della nuova legislatura. Averla relegata ai margini del nuovo assetto governativo non è un bel segnale, ma potrebbe anche risolversi in un vantaggio, qualora la famiglia divenisse veramente una preoccupazione centrale per l’intero governo, considerato che le tematiche familiari sono trasversali a quasi tutti i ministeri. Il quesito che ci poniamo è se la classe politica che è andata al governo si renda conto o meno di quanto cruciale sia questa sfida e cosa comporti per l’Italia perderla ancora una volta, come è accaduto in passato. Lo vogliamo sperare.
Perdere la sfida della famiglia significa fare passi in avanti sulla strada del suicidio demografico (bassissima natalità), del suicidio sociale (consumazione del capitale sociale delle comunità locali) e del suicidio culturale (perdita di una civiltà). Come i Rapporti del Cisf hanno ben documentato, negli ultimi trent’anni l’Italia ha usato la famiglia come ammortizzatore sociale su cui scaricare i deficit e le incapacità degli altri attori (Stato e mercato). Con ciò ha aggravato progressivamente i problemi delle famiglie, che oggi debbono sostenere pressoché da sole i costi dei figli, la precarietà dei giovani, le situazioni problematiche degli anziani e dei non autosufficienti. I risultati di queste politiche cieche verso la famiglia sono stati: l’invecchiamento più rapido ed elevato in Europa, con tutti i problemi che comporta, e la dissipazione delle nuove generazioni, che crescono nella più totale incertezza e insicurezza sul proprio futuro, a meno che, appunto, non abbiano alle loro spalle una famiglia capace di sostenerli. Le povertà sono oggi povertà essenzialmente familiari, nel senso che è il fare famiglia a costituire il fattore più elevato di rischio di impoverimento.
Questo tremendo ciclo di deprivazione collettiva sta alla base del «declino dell’Italia». Lo si può invertire solo se si crea un clima sociale e culturale favorevole al fare famiglia e si mette mano ad un trattamento equo, a partire da quello fiscale, verso la famiglia. Entrambi questi obiettivi sono di enorme portata e richiedono uno sforzo ingente, non certo dei palliativi come il bonus bebé, o misure simili.
Bisogna invertire completamente la rotta, non spostarsi di qualche grado. Ma attenzione: non bisogna farlo ricorrendo allo slogan del mercato, come si sarebbe tentati di farlo solo per rovesciare le politiche di marca statalista («laburista») del governo Prodi, che pure ha totalmente fallito nell’affrontare questi problemi. Nel corso del 2007, la commissione Affari sociali della Camera ha reso noto la gravità della situazione con un suo Rapporto, e l’Osservatorio Nazionale sulla famiglia (precedente all’attuale) ha elaborato un Piano nazionale di politiche familiari da cui si dovrebbe partire per cominciare a rimettere l’Italia su un cammino virtuoso anziché perverso. Dal nuovo governo ci si può aspettare che parta da questi dati e proposte, ed eviti di lasciare la famiglia al puro mercato. Esiste, infatti, il concreto pericolo che la famiglia sia definita come un mero affare privato che non riguarda la sfera pubblica.
L’errore non è solo di certe forze politiche. Per esempio, sindacati e Confindustria mantengono un implicito accordo perverso che lascia la famiglia del lavoratore fuori della contrattazione e dei trattamenti lavorativi (l’assenza di welfare aziendale in Italia sta diventando scandalosa se la si confronta con quanto avviene negli altri maggiori paesi europei).
L’Europa sta correndo ai ripari di quello che essa chiama «inverno demografico», che per la verità è anche sociale e culturale, con una quantità di strumenti che l’Italia ignora quasi completamente. È sperabile che il governo si informi e inizi ad elaborare dei programmi, primi fra tutti l’equità tributaria verso la famiglia, la conciliazione tra lavoro e famiglia, il sostegno alla maternità (che è il buco nero della legge 194), un nuovo patto tra famiglia e scuola, un vero protagonismo delle associazioni familiari, costrette a mendicare la carità, quando invece sono tra le forze più attive e misconosciute di rigenerazione di quel tessuto di società civile che viene sempre più colonizzato dal clientelismo politico e dalla mercificazione mercantile.
Il criterio-guida deve essere quello della sussidiarietà, che implica due corsi di azione: primo, bisogna agire sostenendo la domanda dei servizi da parte delle famiglie, anziché finanziare il lato dell’offerta dei servizi (ciò significa dare maggiore libertà di scelta alle famiglie); secondo, non tassare tutto ciò che serve al sostentamento primario delle famiglie che stanno al di sotto di un tetto di reddito ragionevole, non assistenziale. Detto in altri termini, non si deve intervenire in maniera riparatoria e compensativa sulle condizioni delle famiglie, ma si devono attivare le capacità, i potenziali di azione, delle famiglie quali soggetti sociali protagonisti della comunità locale.
Bisogna invertire la rotta rispetto a chi, come l’ex-ministro Bindi, ha sostenuto che in Italia la famiglia sarebbe sufficientemente tutelata, mentre occorrerebbe tutelare le convivenze (quelle anagrafiche dei «Dico»). Le cose, infatti, stanno esattamente in senso opposto. Il sistema-Italia premia l’individuo e i piccoli aggregati di individui, mentre le famiglie debbono accollarsi l’onere del ricambio generazionale. Può un Paese andare avanti così? (da piùvoce.net)