Opinioni & Commenti

Non c’è pace senza giustizia

DI FRANCO CARDINIQuando si guardi alla storia dei sommi pontefici, si viene colpiti in modo particolare, tra l’altro, da un aspetto di essa, il fatto di come personalità «profetiche» e «carismatiche» si siano avvicendate, nella storia della Chiesa, alternandosi a personalità dotate invece di un solido e pensoso carattere istituzionale. Tale alternanza, che non è difficile qualificare come davvero provvidenziale, si nota in modo speciale nel rapporto tra i due successivi pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.

Tutti ricordano ancora con commozione e quasi con timore certe espressioni forti, intransigenti, quasi irate di papa Wojtyla: come quella volta in cui, dinanzi a un delitto di mafia particolarmente odioso, lo vedemmo quel brandir alto il crocifisso-pastorale e sentenziare a voce ferma, quasi gridata, «C’è un Dio!», un’esclamazione di potenza biblica che per un istante ci ha fatto balenar dinanzi di nuovo, a noi abituati a tener costantemente presente la dolcezza e la misericordia del Cristo, dell’Uomo-Dio, l’immagine veterotestamentaria del Dio che punisce e che è, unico, Signore della Vendetta.

Ma, se abbiamo bisogno della misericordia divina e ne teniamo la vendetta, ciò significa una cosa sola: che siamo profondamente consapevoli che le nostre azioni, individuali e collettive, si svolgono troppo spesso sotto il segno dell’ingiustizia; che d’altro canto l’ingiustizia nel mondo è una funzione della libertà dell’uomo, del suo libero arbitrio e pertanto anche della sua scelta di far il male, di calpestare la vita e i diritti altrui; che però la giustizia umana chiama inesorabile la vendetta divina; e che l’unico rimedio che davvero serva a mettercene al riparo è la metanoia, la conversione profonda del cuore che non può non riflettersi nelle opere. Mi sembra che sia questa teologia della libertà e della giustizia il motivo conduttore principale e profondo d’un documento pacato e razionale nella forma, duro e inesorabile nella sostanza, come il messaggio del Santo Padre per la 40ª giornata della Pace, che si celebrerà il 1° gennaio 2007.

Duro e inesorabile, perché tale è la condizione dei nostri tempi. Si parla di pace, e non c’è dubbio che essa non possa non nascere se non dal cuore dell’uomo: cioè dalla volontà di fondarla e di mantenerla: ma quali sono le sue effettiva condizioni? «Non c’è pace senza libertà», ha sentenziato Léo Strauss, l’intellettuale ebreo-tedesco caro ai neoconservatori. «Non c’è pace senza giustizia», no justice no peace, era il motto dell’agitatore statunitense, nero e musulmano, Malcolm X. Sant’Agostino, che ha definito la pace come tranquillitas ordinis, cioè come stato di equilibrio derivante da una situazione di equità, parrebbe più in accordo con l’agitatore che non con l’intellettuale.

Proprio da qui sembra prender la mosse il Santo Padre allorché afferma che «rispettando la persona si promuove la pace, e promovendo la pace si pongono le basi per un autentico umanesimo integrale». La pace è «un dono e un compito». Dono da parte di Dio, compito per il genere umano.Il pontefice vede nell’affermazione dei diritti della persona umana la via più giusta e più solida, anzi l’unica, per il conseguimento e il mantenimento della pace. Tali diritti sono sostanzialmente due: quello alla vita e quello alla libertà di coscienza, che ormai – dopo il tramonto delle ideologie – è divenuto principalmente diritto alla libertà religiosa.

Il diritto alla vita è minacciato, prosegue il Papa, dalle guerre, dal terrorismo e dalla violenza fisica da una parte (una violenza che non produce solo morte, ma anche fame); e dall’aborto, dalla sperimentazione sull’embrione, dall’eutanasia dall’altra. Ma in ultima analisi quel che davvero minaccia la pace è una cosa sola, ed è la grande malattia dell’Occidente se non addirittura il suo peccato originale: l’ipertrofia dell’Ego, l’individualismo sfrenato, la volontà di potenza e, al tempo stesso, la perdita del senso del limite. La tentazione prometeica e faustiana, la volontà dell’uomo occidentale di far a meno di Dio e di farsi Dio egli stesso e per se stesso, la ricerca sfrenata del potere, del piacere, del benessere e della longevità e l’angoscia che scaturisce dalla consapevolezza che tali oggetti non possono mai, per loro natura, esser perfettamente e durevolmente conseguiti. L’aborto, la sperimentazione sull’embrione e l’eutanasia sono fondamentalmente delitti radicati nella ricerca illimitata della libertà individuale, del piacere e del benessere: sono pertanto non certo esclusivamente, ma soprattutto comunque, delitti «interni» alla società opulenta. Viceversa, le guerre e la fame sono esiti anzitutto e soprattutto della sperequazione profonda, dell’ingiustizia sociale che regna in un mondo in cui, dopo la privatizzazione delle risorse energetiche, si punta ormai addirittura a quella dell’acqua potabile; in un mondo nel quale si è potuto pensare che fosse possibile «esportare democrazia e importare petrolio»; in un mondo in cui milioni d’africani ammalati di Aids sono condannati a morte perché le multinazionali non intendono rinunziare ai loro immensi profitti derivati dagli alti costi dei brevetti dei farmaci che potrebbero debellare quella malattia, e che sarebbe possibile tecnicamente produrre a costi bassi; in un mondo nel quale mancano i mezzi per acquistare quel che sarebbe necessario e basilare per l’esistenza, il cibo e le medicine, mentre si comprano armi di distruzione che costano milioni di dollari; in un mondo in cui i paesi poveri vivono attanagliati da un debito pubblico che in gran parte è un artificiale prodotto di alchimie finanziarie e che è del tutto inutile ridurre o azzerare, mentre basterebbe restituire loro una parte delle materie prime che vengono loro sottratte dal sistema di speculazione messo in atto dalle multinazionali per consentire alle loro economie di decollare; in un mondo nel quale è impossibile combattere il terrorismo internazionale in quanto i suoi boss fanno affari, insieme a quelli del capitalismo internazionale, nei paradisi off shore che sono mantenuti rigorosamente esenti dal controllo delle indagini antiterroristiche.

È dunque molto significativo il richiamo di Benedetto XVI alla Centesimus Annus del suo predecessore: Dio non ha donato all’uomo soltanto la terra: gli ha donato anche se stesso. Accanto all’ecologia della natura è nacessaria un’«ecologia umana» e «sociale». Non basta non attentare alla natura (e viceversa ci si attenta eccome, purtroppo): occorre non attentare ulteriormente alla libertà, alla dignità, alla sopravvivenza della specie umana; è necessario che l’incremento di potere e di profitto di élites sempre più limitate, che sempre più concentrano ed accumulano l’uno e l’altro, venga limitato a favore di efficaci forme di redistribuzione.

Non è degno di cristiani da una parte il difendere a senso unico il diritto alla vita dell’embrione e la sacralità della famiglia, e dall’altra chiudere gli occhi dinanzi alle sperequazioni, alle speculazioni, agli abnormi processi di accumulo dei profitti e al crescere esponenziale della miseria; no si può chiedere ai cristiani d’Africa di lottare contro l’Aids utilizzando l’arma della castità e della fedeltà coniugale ma «dimenticando» lo scandalo del monopolio dei brevetti e prendendo pertanto le tacite difese obiettive di chi uccide il prossimo impedendogli di curarsi nel nome del Dio Danaro.

Ecco perché il messaggio del papa insiste tanto sull’«ecologia della pace», sulla corsa alle risorse disponibili, sul problema dei rifornimenti energetici e sul correlativo rialzo dei prezzi che provoca nuove sofferenze ai più poveri. Non sono quindi soltanto le «visioni riduttive» dell’uomo, quindi le contrapposte nuove ideologie (magari travestite da convinzioni religiose) a minacciare la pace; a minarla concorre potentemente anche l’indifferenza nei confronti di chi soffre, specie se quelle sofferenze sono causate o aggravate dall’ingiustizia che alimenta il benessere di minoranze finanziariamente, tecnologicamente e militarmente protette.

E qui si palesano anche i limiti della «religione» occidentale dei «diritti dell’uomo», che non ha mai né potuto né saputo (e nemmeno voluto?) estendersi davvero a tutta l’umanità e dove si potrebbe dire, parafrasando Orwell, che «esistono uomini più uomini degli altri». Perché i diritti, per poter essere esercitati correttamente e legittimamente, presuppongono dei doveri: primo fra tutti quello della solidarietà. E qui Benedetto XVI cita molto opportunamente il Mahathma Gandhi: «Il Gange dei diritti discende dall’Himalaya dei doveri».

Né manca, infine, la coraggiosa denunzia della nuova corsa alle armi nucleari: che non si limita alla denunzia di chi, non disponendo di tali terribili mezzi di distruzione, cerca di dotarsene, ma va dritta al centro del problema: anche il «legittimo» possesso di esse da parte di potenze che già da decenni le detengono è, nella sostanza, pericoloso e criminoso; anche il trattato di non-proliferazione è intrinsecamente iniquo in quanto sancisce la divisione del mondo tra chi, disponendo di quelle armi, può impunemente ricattare chi non le possiede, e chi è destinato a restare in stato d’inferiorità. Il papa richiama al fatto che originario fine dei trattati di non-proliferazione era il generale e universale disarmo nucleare, lo smantellamento di mezzi di distruzione di massa che possono dar adito a un’incontrollabile dilagare di morte e di rovina: mentre, ormai, di disarmo nucleare non si parla più nemmeno a livello di retorica pacifista, ed è sottinteso che le potenze nucleari hanno il diritto di rimaner tali nella misura in cui sono fermamente decise a rimanerlo, alla faccia di qualunque impegno internazionale, di qualunque pericolo e di qualunque principio di equità e di giustizia distributiva.

E non si rispolveri il fantasma «realistico» della Realpolitik, che non è affatto un saggio adeguarsi alla concretezza delle forze in presenza, bensì un alibi per il mantenimento dell’equilibrio del ricatto e del terrore. Ma quella della cristallizzazione dei rapporti di forza tra chi è potente e chi è debole non è vera pace: è solo assenza di guerra, che di solito nasconde una quantità incontrollabili di conflitti «asimmetrici», «freddi», «locali» eccetera e che finisce – la storia ne è maestra – nello sfociare in autentici grandi conflitti distruttivi.

Combattere qualunque forma di guerra può esser necessario e meritorio, ma non è sufficiente; la paradossale consegna del cristiano in quanto «costruttore di pace» è anche quella di combattere – denunziandone la natura menzognera – anche alcune forme di falsa pace, cioè di non-guerra determinata dall’equilibrio del terrore e destinata a perpetuare l’ingiustizia. Tali false paci sono, immancabilmente, il presupposto e l’anticamera di guerra ancora peggiori.

Messaggio del Papa per la Giornata mondiale della pace 2007