Pisa

NOI, RAGAZZI, TRA I DETENUTI DEL CARCERE DON BOSCO

di Caterina Guidi

Circa 300 metri in linea d’aria separano il liceo Buonarroti dal penitenziario «Don Bosco», a Pisa; ma sono due mondi diversi, quello degli studenti del liceo scientifico e quello dei detenuti – a volte solo qualche anno più anziani dei primi -. Eppure questi due mondi da tre anni si incontrano e dialogano. «Il progetto riguarda le classi quarte – spiega l’insegnante di religione, Donatella Bouillon – e ha come obiettivo l’educazione alla legalità e la prevenzione in generale. È nato da una collaborazione con il direttore del carcere e con le educatrici, che hanno accettato di lavorare insieme a noi».Così gli studenti hanno fatto ingresso al «Don Bosco», incontrato alcuni detenuti, parlato con loro. Ma la visita al carcere arriva dopo un ricco iter conoscitivo: «C’è prima di tutto un incontro formativo a scuola, tenuto da Adriano Prosperi, docente di Storia alla Scuola Normale. Poi vengono da noi gli educatori e un rappresentante della Polizia penitenziaria, per spiegare ai ragazzi il punto di vista delle Istituzioni rispetto al carcere e ai detenuti». Trova spazio anche una riflessione sulla legge Gozzini, quella che ha messo nero su bianco – in tempi relativamente recenti – la prevalenza della funzione rieducativa della pena rispetto a quella punitiva. «Incontriamo poi le associazioni di volontari – spiega l’insegnante di religione – e i rappresentanti della cappellania del carcere». Alla fine i cancelli del «Don Bosco» si aprono e i ragazzi possono parlare con 8 o 10 detenuti. Nel 2010 c’è stata qualche novità: «ragazzi e detenuti hanno giocato alcune partite di calcio pomeridiane, nel cortile del penitenziario. Successivamente uno dei carcerati ha utilizzato il suo permesso per venire a incontrare gli studenti, accompagnato da un volontario dell’associazione Controluce». Il progetto cresce di anno in anno, con nuove idee e iniziative. Il tutto naturalmente «a costo zero» per la scuola, grazie alla collaborazione e al lavoro volontario di insegnanti, educatori, esperti, direzione del carcere, polizia penitenziaria, associazioni legate al «Don Bosco». «L’esperienza è stata originale e difficile al tempo stesso – racconta Lorenzo Posteraro, studente dell’ultimo anno -. Non avrei avuto mai un’altra occasione per conoscere un ambiente così lontano da “noi” e così chiuso». Nelle parole di Lorenzo c’è l’«impressione» che il carcere fa a tutti, al di là dei luoghi comuni: il sovraffollamento, la carenza di personale, le difficoltà nella gestione quotidiana rendono la prigione un posto ancor più opprimente di quello che sarebbe per sua natura.Nell’organizzazione del torneo di calcio, i palloni sono stati comprati da alcuni insegnanti del Buonarroti, le educatrici hanno pensato a un piccolo rinfresco e i ragazzi – dal canto loro – sono andati a giocare al di fuori dell’orario scolastico. «Da questo punto di vista – spiega ancora Donatella Bouillon – il carcere non ha “possibilità”. Le porte del campetto di calcio dovrebbero essere sostituite, non ci sono fondi per organizzare tante cose… la nostra esperienza la dice lunga su come le strutture carcerarie sono costrette a operare». Le partite sono state un vero e proprio evento, di quelli che spezzano la routine dietro le sbarre: «quando siamo arrivati – spiega Federico Mori – tutti volevano giocare con noi “venuti da fuori”. Mi sono sentito osservato, anche se dopo un po’ non ti accorgi nemmeno più di essere in una prigione. Fra i giovani, tantissimi sono gli stranieri: l’unico italiano che abbiamo visto in quel giorno era l’organizzatore del torneo». E le ragazze che hanno partecipato al progetto? «Noi chiaramente non abbiamo giocato – spiega Elisabetta Fanciullacci, anche lei studentessa dell’ultimo anno – ma siamo andate agli incontri con i detenuti. Abbiamo portato alcuni libri che riteniamo significativi, uno fra tutti “Consigli per la felicità” di Schopenhauer. Pensando a un detenuto, tutti ci immaginiamo la classica figura di “delinquente”, magari tatuato e “tipo film”. Sono persone come le altre… ciascuno con la sua storia». A colpire alcuni studenti è stato anche il racconto di una detenuta africana che ha attraversato il Sahara per fuggire dalla guerra e dalla povertà. «Arrivata in Italia doveva trovare qualche mezzo per sostentarsi… e a volte i mezzi non sono legali, specie se le leggi non le conosci, non sai la lingua, non hai idea dei nostri usi e costumi». Le regole del carcere sono dure, i libri che i ragazzi portano dentro vengono controllati perché non contengano messaggi in codice, gli studenti schedati dalla polizia – anche per fatti «di poco conto» – non possono varcare i cancelli del «Don Bosco». Regole troppo dure, secondo alcuni dei ragazzi che abbiamo incontrato: «tuttavia anche questo fa riflettere – sottolinea l’insegnante – non solo sulla necessità del rispetto delle leggi, ma anche sulla mole di responsabilità di cui è investito chi gestisce un carcere e deve garantire la sicurezza per carcerati e visitatori». I detenuti che hanno incontrato i ragazzi sembravano – in vario modo – vicini al pentimento, ma soprattutto erano pronti a parlare del proprio passato, cosa non facile davanti a 70 ragazzi sconosciuti. «L’incontro con loro mi ha fatto capire – spiega Marina Maurelli – che non serve lasciare una persona per anni e anni senza una speranza di miglioramento, né la possibilità di capire dove ha sbagliato. Specialmente gli stranieri: a volte non sono del tutto consapevoli di commettere un reato. Basta “poco” per finire dentro e il carcere rischia di peggiorare la situazione, creando attorno al detenuto una rete di “legami criminali” da utilizzare una volta fuori». Per tutti i ragazzi il carcere aiuta a capire la bellezza delle cose che abbiamo e il valore della quotidianità: «sono le piccole cose che ci rendono felici – sottolineano alcuni discutendo fra di loro -. In prigione la vita di ogni giorno è fatta di ore d’aria e chiacchiere in cella… niente di più, dopo un po’ le parole “finiscono” e ti ritrovi solo con i tuoi pensieri». «Il carcere ti toglie la libertà – dice Samuele Gori – perché forse quando eri fuori ne hai avuta troppa… il problema però è alla base del sistema, un sistema che andrebbe ripensato da cima a fondo». Gli fa eco Luca Giachetti: «chi è responsabile chiaramente deve pagare, perché la sua libertà ha tolto libertà a qualcun altro» è certo però che – in un mondo di guardie e ladri – se il regime carcerario è reso troppo duro, viene molto più naturale simpatizzare con i ladri. Comunque, il progetto «ci ha dato molti spunti di riflessione – conclude Chiara Pelosi – sui diritti umani, la legalità, la giustizia, il valore della quotidianità, al di là delle opinioni diverse e dei suggerimenti per migliorare le cose». E in fin dei conti, fra le ore di lezione, le interrogazioni, i compiti in classe, gli scrutini e le assemblee di istituto, la scuola questo è chiamata a fare.