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Nobel Pace: consegnati i premi a Nadia Murad e Denis Mukwege. Reiss-Adersen, «campioni di dignità umana»

Sono stati consegnati a Oslo i premi Nobel per la pace: Nadia Murad e Denis Mukwege, sono due «campioni di dignità umana» nella loro lotta per mettere in luce l'oppressione sulle donne, ha dichiarato la presidente del comitato Berit Reiss-Adersen.

La «lotta per la giustizia li unisce nonostante le loro differenze», ha spiegato ancora Reiss Andersen prima della consegna del premio: lei giovane donna yazida, vittima nella sua carne di violenza e soprusi, lui medico congolese che presta le sue capacità chirurgiche per curare le donne vittime di violenza. Il premio nobel per la pace viene tradizionalmente consegnato il 10 dicembre, anniversario della dichiarazione universale per i diritti umani e giorno della morte di Alfred Nobel, fondatore del premio.

«Oggi è un giorno speciale per me. È il giorno in cui il bene ha trionfato sul male, il giorno in cui l’umanità ha sconfitto il terrorismo, il giorno in cui i bambini e le donne che hanno subito persecuzioni hanno trionfato sugli autori di questi crimini». Così Nadia Murad a parlare a Oslo, dopo aver ricevuto il premio Nobel per la pace 2018. Il suo viso reso di pietra dalle troppe sofferenze, la voce dolce e ferma, racconta: «Ho vissuto la mia infanzia di ragazza a Kojo, un villaggio a sud della regione di Sinjar. Non sapevo nulla dei conflitti e delle uccisioni che avvenivano ogni giorno nel nostro mondo. Non sapevo che gli esseri umani potessero perpetrare simili orribili crimini l’uno contro l’altro». Le hanno ucciso la madre e sei fratelli, vittime di quel genocidio che ha ridotto la comunità yazida in Siria a 5mila persone, dalle 80mila che erano. Nemmeno «la comunità internazionale è riuscita a salvarci dall’Isis e a impedire il verificarsi del genocidio contro di noi, ma ha osservato pigramente l’annientamento di una intera comunità». Non racconta di sé e delle esperienze di violenza che ha vissuto nel suo corpo, ma «degli oltre 6.500 bambini e donne yazide catturate, vendute, comprate, abusate sessualmente e psicologicamente». Di loro «3mila sono ancora nelle mani dell’Isis e di loro non si sa nulla». «È inconcepibile che la coscienza dei leader di 195 Paesi in tutto il mondo non si sia mobilitata per liberare queste ragazze». Nadia ringrazia «per l’onore di questo premio, ma resta il fatto che l’unico premio al mondo in grado di ripristinare la nostra dignità è la giustizia e perseguire i criminali».

«La prima paziente accolta all’ospedale di Panzi a Bukavu era una vittima di violenza che aveva ricevuto un colpo di arma da fuoco nei suoi organi genitali. La violenza macabra non conosce limiti. Quella violenza non si è mai fermata». Denis Mukwege, chirurgo ostetrico-ginecologico, ha iniziato a occuparsi nel 1999 a Bukavu delle donne vittime di violenza della guerra nella Repubblica democratica del Congo. Mukwege ha raccontato oggi a Oslo la sua battaglia contro questa «guerra nascosta», con un lungo discorso pronunciato a braccio. Voce ferma, sguardo fiero e umile allo stesso tempo, racconta la sofferenza perpetrata persino su bambine di pochi mesi e la sua lotta per guarire le vittime e cercare la giustizia. «Quello che è successo e continua oggi in Congo, è stato reso possibile dall’assenza di uno stato di diritto, dal crollo dei valori tradizionali e dal regime di impunità, specialmente per chi è al potere», denuncia con forza. «Abbiamo tutti il potere di cambiare il corso della storia quando le convinzioni per le quali lottiamo sono giuste», incoraggia, dedicando il suo premio «a tutte le vittime della violenza sessuale nel mondo». «Non sono solo gli autori di violenze a essere responsabili dei loro crimini, ma anche quelli che scelgono di distogliere lo sguardo», e aggiunge: «Il popolo congolese è umiliato, maltrattato e massacrato da oltre due decenni, e la comunità internazionale vede e sa». E nonostante la «realtà sinistra» in cui vive, il coraggioso dottore racconta la storia di Sarah che, distrutta da violenze di gruppo, incoraggiava i medici a non perdere la speranza. «Se una donna come Sarah non si arrende, chi siamo noi per farlo?».