Italia
Neonato ucciso all’Abetone, un dramma della povertà culturale e della solitudine
di Andrea Bernardini
Lo ha portato in grembo, lo ha partorito. E subito dopo gli ha tolto la vita che gli aveva dato, soffocandolo con un fazzoletto, perché temeva di perdere il posto di lavoro e il permesso di soggiorno. È una storia che interpella le nostre coscienze quella della donna ucraina di 42 anni, Tetiana Hykava, ora detenuta nel carcere di Sollicciano a Firenze con l’accusa di omicidio volontario.
La donna straniera sopportava il carico del fallimento di due relazioni. Dalla prima, otto anni fa, aveva avuto il suo primo figlio: ma il padre, secondo quanto è emerso, non si sarebbe mai occupato del piccolo.
Qualche mese fa si era conclusa la sua relazione con un uomo macedone. Era rimasta incinta di nuovo, ma, probabilmente a causa della irregolarità del ciclo mestruale, se ne sarebbe accorta molto tardi. Impaurita dall’eventualità di perdere il lavoro e di essere espulsa come avrebbe confessato al magistrato inquirente, avrebbe pensato di risolvere il problema abortendo.
Avrebbe reperito un farmaco abortivo dai mercatini dei connazionali. Probabilmente delle prostaglandine, che provocano la rapida espulsione dell’embrione. Il Cytotec, del resto, è un farmaco facilmente accessibile: in origine non era stato pensato come farmaco abortivo (oggi lo si usa in alcuni ospedali della Toscana insieme alla Ru486 per provocare aborti chimici), ma semplicemente per prevenire danni gastrici in caso di assunzione di antifiammatori. «Da noi non è passata», commenta il professor Umberto Maria Reali, presidente del Movimento e del Centro di aiuto alla vita di Pistoia, una struttura collocata in via dei Pazzi, in centro città, dove, solo lo scorso anno, sono state assistite duecento donne sole o famiglie.
Il 60% delle «utenti» che si sono rivolte, negli ultimi anni, al Centro di aiuto alla vita di Pistoia, sono straniere: albanesi e rumene, russe e ucraine, ma anche nigeriane o marocchine. Donne sole o «accompagnate» da un partner, che si rivolgono al Cav soprattutto perché temono di non farcela con un altro figlio.
Nello scorso anno il centro ha accompagnato la gravidanza di settantuno di loro. E tuttora gli operatori del Cav continuano ad aiutarle, offrendo loro vestiti e pannolini, latte in polvere, e tutto quello che è a loro disposizione. C’è poi il Progetto Gemma, una sorta di «adozione a distanza» anonima anche di tipo economico, che ha interessato diversi casi. Ed un numero verde, «Sos vita» (800813000) aperto per tutte quelle donne che si trovano in difficoltà. Alle donne che proprio non se la sentono di tenere con sé un figlio, il Movimento per la vita consiglia di portare avanti comunque la gravidanza: una legge dà infatti loro la possibilità di non riconoscerlo; se ne occuperanno i medici dell’ospedale. E, in pochissimi giorni, statene certi, quel figlio troverà una famiglia adottiva. Tutto questo a Tetiana non è stato detto, perché la donna ha tenuto nascosto tutto per sé. Fino a partorire il piccolo nello spogliatoio del bar dove lavorava. Pulire il sangue con gli stracci e mettere il bimbo nella sua borsa. Temendo che il suo pianto potesse attirare l’attenzione, gli ha messo un fazzoletto in bocca e lo ha soffocato. In ospedale, solo diverse ore dopo, quando finalmente sono riusciti a farsi dare quella borsa, i carabinieri hanno capito cosa era successo.
«Quello che abbiamo letto è un dramma che affonda le sue radici nella povertà culturale e nella solitudine e che dovrebbe interrogare tutta la comunità» ha commentato il professor Reali. Un commento che non possiamo non sottoscrivere.