Opinioni & Commenti

Nell’Italia dei tanti campanili un sentire comune diffuso

di Domenico Delle Foglie

Un Papa tedesco che di nome fa Joseph ma che ha scelto di chiamarsi Benedetto, l’italianissimo Benedetto, costruttore del monachesimo europeo. Un presidente della Repubblica nato a Napoli, nella terra dei Borboni, passato attraverso la notte buia dell’ideologia comunista. Un presidente dei vescovi italiani, uomo delle istituzioni, ligure di ferro.

Questi tre uomini, Benedetto XVI, Giorgio Napolitano e Angelo Bagnasco, hanno segnato con le loro parole il 17 marzo del 2011: 150 anni dell’Unità d’Italia. Un approdo ma anche una ripartenza. Innanzitutto per un popolo, quello italiano, che ha tanto bisogno di fare memoria di sé per riscoprire le radici che ne fanno un unicum nel panorama internazionale. Se è vero, come è vero, che questa terra baciata dalla Provvidenza ha accolto Pietro e qui i discepoli di un giovane uomo palestinese hanno trovato la loro casa. Una dimora da cui poi ripartire in missione per il mondo intero, a raccontare una storia di amore e di redenzione. E se pure la storia non è stata sempre limpida, è ancora qui che è possibile fare memoria concreta e visibile del Cristianesimo come fatto di popolo. Ben riconoscibile in quei «100mila campanili della nostra Italia» evocati dal cardinale Bagnasco, che «ispirano un sentire comune diffuso che identifica senza escludere, che fa riconoscere, avvicina, sollecita il senso di cordiale appartenenza e di generosa partecipazione alla comunità cristiana, alla vita del borgo e del paese, delle città e delle regioni, dello Stato».

Una concretezza esistenziale che è il portato – come ha sottolineato Benedetto XVI nel suo messaggio al Capo dello Stato – non di una «artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma il naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente nel tempo». Identità italiana alla quale il Cristianesimo ha contribuito  in maniera fondamentale attraverso l’opera della Chiesa.

Riconoscimento, questo, venuto anche da parte del presidente della Repubblica nel suo discorso alle Camere riunite, dove ha parlato di «un rapporto altamente costruttivo» fra laici e cattolici. Sino al punto da indicarlo come «uno dei punti di forza su cui possiamo far leva per il consolidamento della coesione e dell’unità nazionale».

Noi tutti sappiamo come il presidente Napolitano, sulle orme di Carlo Azeglio Ciampi, abbia fatto sua la missione dell’unità nazionale di cui è, per Costituzione, il massimo garante. Ma non si nasconde gli scricchioli sinistri che in questi anni si sono registrati, soprattutto nell’evocazione di scenari secessionisti e proprio mentre l’Italia si prepara a una grande riforma dello Stato in senso federalista. Di qui la necessità di avere alleati forti e convinti. E i cattolici, per cultura istituzionale, ma anche per prassi consolidata, devono apparirgli fra i migliori.

Napolitano stia tranquillo. I cattolici sapranno difendere l’unità nazionale perché hanno apprezzato a vivere insieme, dalle Alpi all’Etna. E hanno saputo essere, al tempo stesso, Chiesa italiana e Chiesa milanese, fiorentina, romana, napoletana, palermitana e cagliaritana.

Non è peregrino pensare che il 17 marzo non solo a Roma, nella basilica di Santa Maria degli Angeli, ma anche in tanti conventi e in tante chiese lungo la penisola, in tante comunità e in tante famiglie, e nello scrigno prezioso delle coscienze, sia stata levata una grande preghiera per l’Italia. Nessuno ce l’ha chiesto. Ma in tanti lo abbiamo fatto.

Benedetto XVI, messaggio a Napolitano per i 150 anni dell’Unità d’Italia