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Nell’isola di Lesbo la Caritas assiste i più vulnerabili
Nelle strutture Caritas a Lesbo sono tutti in attesa della visita del Papa il 16 aprile. Sono in maggioranza famiglie con bambini, donne incinte, persone con disabilità, anziani, persone vulnerabili. Dall'inizio di dicembre ad oggi Caritas Hellas ha ospitato più di 5.000 persone e tuttora ne sostiene, anche con la distribuzione di sacchi a pelo, indumenti, prodotti per l'igiene e per i bambini, oltre 3.000.
Una donna ha affrontato il viaggio da sola occupandosi di sette figli, per metterli in salvo dalle bombe che cadono ogni giorno sulla Siria. Una famiglia ha visto uno dei cinque figli, un neonato di due mesi, affogare nel mare Egeo durante la traversata. Sono in maggioranza famiglie con bambini, donne incinte, persone con disabilità, anziani, i 230 profughi accolti in questi giorni nello «shelter», l’hotel preso in affitto da Caritas Hellas nell’isola di Lesbo per dare un rifugio alle persone più vulnerabili che, nonostante le difficoltà date dalla loro condizione, sono disposte a tutto, pur di cercare un posto sicuro in Europa. Siriani, iracheni, pakistani, afgani, africani. Dall’inizio di dicembre ad oggi Caritas Hellas ha ospitato più di 5.000 persone e tuttora ne sostiene, anche con la distribuzione di sacchi a pelo, indumenti, prodotti per l’igiene e per i bambini, oltre 3.000. A breve partirà un altro progetto, sempre in collaborazione e con il sostegno finanziario della rete Caritas. Questa è l’assistenza umanitaria della Chiesa cattolica che Papa Francesco troverà nell’isola di Lesbo durante il suo viaggio lampo del 16 aprile.
Il simbolo: la collina dei giubbotti di salvataggio. Il Papa ha accolto l’invito del Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e dell’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia per visitare insieme l’isola greca che lo scorso anno ha visto sbarcare più della metà del milione di profughi della rotta balcanica. Tutti disperati ma – paradossalmente – più fortunati di quelli che dal 20 marzo scorso, data di entrata in vigore dell’accordo Ue-Turchia, si vedono chiudere le porte in faccia dall’Europa, che li respinge indietro con le navi (i primi 200 sono già partiti da Lesbo la scorsa settimana), verso un Paese dove nessuno vuole tornare.
Papa Francesco sarà a Lesbo sabato 16 aprile per dare un segno di solidarietà a forte valenza ecumenica e un ammonimento forte ai governi europei, contro indifferenza ed egoismi, come a Lampedusa tre anni fa. Lesbo, isola mitologica con 8.000 abitanti che si sono attivati in una sovrumana gara di generosità (tanto da essere nominati per il Premio Nobel), verrà ricordata dal mondo per lo sconvolgente simbolo della «collina dei giubbotti di salvataggio», un immenso cumulo nero e arancione di salvagenti, molti dei quali non hanno aiutato le persone che li indossavano (700 morti nel 2015, 400 dall’inizio di gennaio ad oggi) perché realizzati con materiali non idonei in fabbriche clandestine turche. Tanti non avevano nemmeno i soldi per comprare quelli fasulli. La loro flebile speranza di restare in vita erano solo due bottiglie di plastica legate con un calzino.
«Condizioni agghiaccianti» nel centro di detenzione di Moria. Gli effetti dell’accordo sulle isole dell’Egeo si fanno già sentire. Gli sbarchi sono crollati dell’80%: da 1.676 a una media di 337 al giorno, anche perché le navi militari di Frontex pattugliano i mari per intercettare i gommoni dei trafficanti. Ma le organizzazioni umanitarie e dei diritti umani denunciano le «condizioni agghiaccianti» dei due centri di detenzione sulle isole di Lesbo e Chia. Nel solo centro di Moria, a Lesbo, sono rinchiusi – in attesa dell’esame delle posizioni individuali prima di essere respinti in Turchia – oltre 3150 persone, tra cui (dato inammissibile) moltissimi bambini. Pochi o assenti i medici, scarso il cibo, mancano coperte e arredi che permettano riservatezza in un centro che ha più che superato la capienza massima di 2700 posti. I profughi, che vivono nell’incertezza e nell’angoscia, non ricevono le necessarie informazioni legali, anche se molti stanno tentando la richiesta dell’asilo in Grecia pur di allungare i tempi.
Gli aiuti della Chiesa cattolica. Per Maritina Koraki, coordinatrice degli aiuti umanitari di Caritas Hellas (Caritas Grecia) a Lesbo, che vive sull’isola da più di 14 anni, la presenza del Papa rappresenta un evento straordinario, perché porta l’attenzione del mondo su una situazione drammatica. La più grave crisi umanitaria in Europa dopo la seconda guerra mondiale. La gente di Lesbo è sensibile all’emergenza. Perfino le nonne hanno porto il biberon ai piccolo profughi. Molti sono figli di migranti provenienti dall’Asia minore e sanno cosa vuol dire dover fuggire dal proprio Paese. E capiscono perché nessuno dei profughi vuole oggi tornare in Turchia. «Ci sono già stati per uno/due anni e hanno sperimentato come sia difficile la vita lì». La visita del Papa, aggiunge Koraki, è anche «un’ottima occasione per unire gli sforzi con la Chiesa ortodossa – osserva -. Tra noi anche chi non è cattolico è benvenuto. Bisogna agire insieme per fronteggiare questa enorme crisi umanitaria».
Tra gli ospiti dello «shelter» Caritas. Intanto gli ospiti dello «shelter» di Caritas Hellas a Lesbo continuano a sperare in un futuro in Europa. Prima restavano solo pochi giorni e poi continuavano il viaggio. Ora, in conseguenza dell’accordo, resteranno mesi. I 230 di oggi sono infatti arrivati prima del fatidico 20 marzo, per cui non rischiano l’espulsione in Turchia. Stanno perciò tentando la strada dei ricongiungimenti familiari, dei ricollocamenti o della protezione umanitaria in Grecia, visto che sono casi molto vulnerabili. «Li abbiamo informati della visita del Papa – racconta Tonia Patrikiadou, responsabile della struttura, di Caritas Hellas -. Alcuni lo sapevano già perché leggono le notizie on line. Sono molto contenti». Qui la vita quotidiana scorre tra pratiche burocratiche, gruppi di aiuto, sostegno psicologico, informazioni sullo stile di vita e i valori europei, perfino lezioni di yoga. 17 le persone che vi lavorano a tempo pieno. «Grazie al volontariato spontaneo e a collaborazioni con altre ong cercheremo di implementare il progetto con nuove attività», aggiunge. Tonia ricorda con commozione le storie più drammatiche, come la famiglia che ha perso in mare un neonato di soli due mesi: «Sono stati con noi cinque giorni, abbiamo organizzato i funerali per il bimbo, li abbiamo aiutati con gli psicologi. E’ stato molto duro. Ma siamo riusciti a vivere insieme questo momento di enorme dolore, per farli sentire meno soli». Bisogna vedere con i propri occhi per comprendere veramente.