Opinioni & Commenti
Nell’Europa a due velocità restiamo tra le ultime ruote del carro
Per usare un eufemismo il nostro Paese non sta troppo bene. La disoccupazione, drammatica in generale e tragica soprattutto per i giovani, è ormai l’unica cosa che rimane stabile da cinque anni mentre il lavoro è sempre più precario. Anche nell’ultimo anno l’Italia è cresciuta ancora meno dell’1%. Nel frattempo la crescita nella zona euro è stata in media dell’1,7%, con la Germania a quasi il 2%, il miracolo della Spagna, Paese fra i più devastati dalla crisi, che per il secondo anno consecutivo cresce di oltre il 3% e la stessa Francia che,seppure con difficoltà crescenti, riesce a non scendere sotto l’1,4%.
E tutto questo nonostante che negli ultimi anni all’Italia sia stata regalata anche una serie fortunata di circostanze propizie per potere ripartire. Fra queste la diminuzione del prezzo del petrolio provvidenziale per un Paese che lo deve comprare tutto, una riduzione del cambio dell’euro rispetto al dollaro che è manna dal cielo per chi come noi una volta esportava soprattutto contando sulla lira svalutata e infine le grandi iniezioni di moneta fatte da Draghi per comprare il debito che, per esempio, hanno ridotto il tasso di interesse delle nostre obbligazioni a dieci anni ad appena poco più dell’1%, cioè ad un basso costo del debito mai sognato in passato.
E tuttavia il nostro debito rimane, insieme a quello del Portogallo, il secondo debito della zona euro dopo la Grecia e, in termini assoluti, il terzo debito del mondo dopo quello degli Stati Uniti e del Giappone. Negli ultimi anni abbiamo cercato di diminuirlo anche con la cura dell’austerità e abbiamo ridotto progressivamente la nostra spesa pubblica mentre aumentavano le entrate. Abbiamo cioè obbedito a quello che ci chiedeva l’Europa spendendo meno, se si tolgono gli interessi, di quanto lo stato incassava. Abbiamo fatto il compito di realizzare, come ci è stato detto con insistenza, il famoso «avanzo primario» che è passato, ad esempio, dai due miliardi del 2010 ai 39 miliardi del 2012. Ma nel frattempo il pagamento degli interessi passivi sul nostro debito, soprattutto nella fase acuta della crisi, cresceva molto di più del nostro attivo di bilancio passando a 70 miliardi nel 2009, a 76 nel 2010, a 79 nel 2011, a 83,5 nel 2012. Ora l’intervento di Draghi ha ridotto il peso degli interessi negli ultimi anni fino a scendere a 66,5 miliardi nel 2016, ma sembra che l’aiuto della Banca Centrale Europea non debba durare oltre questo anno. Quindi anche la stagione del debito a basso costo più prima che poi finirà. Già oggi i tassi di interesse per obbligazioni a dieci anni sono già saliti ad oltre il 2%. E comunque sarà il risveglio della inflazione già in corso a imporre un aumento dei tassi anche da parte della Bce. E secondo una stima, ad esempio, del Credito svizzero l’Italia già quest’anno dovrà tornare ad emettere 245 miliardi di obbligazioni per finanziare il suo debito. In parole povere un salasso che equivale a quasi un terzo della nostra spesa pubblica.
E’ evidente a questo punto che se siamo costretti ad avere vincoli sempre più rigidi di risparmio fra le altre cose non daremo nuova occupazione. Giocare solo sulla flessibilità del lavoro serve a poco come hanno dimostrato gli scarsi risultati del tanto discusso Jobs act. Ci vuole la crescita e per ottenere la crescita e creare lavoro ci vogliono investimenti. Ma ottenere investimenti privati è già difficile in generale in un mondo in cui il danaro è sempre più dirottato sulla finanza speculativa anziché sugli impieghi produttivi. Gli investimenti stranieri poi per essere attirati in un paese chiedono soprattutto riduzioni fiscali cioè un deterioramento ulteriore delle finanze pubbliche e l’Italia, per una serie di ragioni che sarebbe lungo qui elencare, rimane purtroppo fra i Paesi meno attraenti per gli imprenditori stranieri. A loro volta gli investimenti privati interni rimangono frenati se non bloccati dalla condizione delle nostre banche svaligiate dai debiti. Rimane quindi soprattutto la leva degli investimenti pubblici che però non si possono attuare se da Bruxelles ci si impone di usare i non molti soldi che abbiamo a disposizione solo per ridurre il debito.
In questo quadro in cui il nostro Paese ha un disperato bisogno di risorse viene fuori la proposta della Merkel di costruire un Europa a due velocità con alcuni paesi che vanno avanti nel processo di integrazione e altri che ne rimangono fuori. Per certi aspetti la proposta appare solo la fotografia dell’esistente. Dentro l’Unione europea ci sono già paesi che hanno adottato l’euro e altri no, paesi che fanno parte dello spazio Schengen ed altri che ne restano fuori senza parlare delle numerose convenzioni che non sono state adottate da tutti gli stati come quella sul terrorismo, quella sui diritti civili e quella sul fiscal drag. Per alcuni settori come la difesa, la sicurezza, la ricerca comune la proposta Merkel può essere discussa.
Ma ci sono anche proposte che sono state avanzate sul piano di una maggiore integrazione in fatto di solidarietà e che rimangono quelle più dimenticate. Fra queste un bilancio comune per gestire la spesa dei profughi, un piano di assistenza collettivo per i quasi trenta milioni di disoccupati europei, un progetto di mutualizzazione del debito (eurobond) per i quasi venti paesi europei (la stragrande maggioranza)il cui debito supera ormai il 60% del Pil. Quello di cui i paesi dell’Europa più in difficoltà fra cui il nostro non hanno certo bisogno è l’idea che pure circola da tempo di un bilancio comune europeo imposto da Bruxelles e di unico ministro delle finanze che ordini ai paesi membri più disastrati solo quanto non possono spendere e quanto devono risparmiare.