Opinioni & Commenti
Nella scena della Pasqua ognuno cerchi il suo ruolo
di Franco Vaccari
Abbiamo letto domenica scorsa la narrazione della passione secondo Matteo. Gli eventi di una scena drammatica e, per certi versi, tragica, si susseguono. Una lettura incalzante ci fa immergere in un crescendo di azioni e reazioni impensate, non presupposte dall’inizio della vicenda, quando un piccolo gruppo di discepoli, col proprio maestro, si accinge a compiere un rito religioso ripetuto da secoli: la Pasqua. Si direbbe: in apertura tutto tranquillo.
Lo scenario materiale, però, introduce gli elementi di un dramma che si consuma col concorso di tanti, con azioni volute e pensate, con parole cattive, pronunciate per fare del male, con gesti cinici per inchiodar gente a un legno e annaffiare d’aceto la bocca di un torturato.
Ma è un dramma che si consuma anche con gesti non sempre dall’esito previsto, segno chiaro di una situazione sfuggita di mano, con parole che non avrebbero immaginato conseguenze tanto nefaste, con silenzi irresponsabili o impotenti, con stupori e angosce paralizzanti, pensieri insensati o piccoli gesti di vana pietà.
Tutto, in breve, prende una piega oscura, col concorso di tutti e di ciascuno. Attraverso un processo farsa lo scherno pubblico si sostanzia e volge ad un epilogo in cui si consumano la tortura e la morte di un uomo che era senza colpa. Da quella radura insanguinata dove in poche ore le urla e i gemiti si spengono nell’odore acre della tortura, gli storici ci dicono che giunse a Roma la sbiadita notizia della messa a morte di un tal Gesù, oscuro figlio di un falegname.
La liturgia ci lascia così. Fino alla notte santa non ci sarà altra parola che questa: ripresa, approfondita, sviscerata. Come in un rallenty offerto all’occhio, all’orecchio e all’anima.
Un tempo dato a ciascuno per trovare collocazione nella scena. Perché è questione di collocazione, di punto prospettico. Dove stare in quella scena? L’alba della resurrezione splende per chi dal tempo dell’amore passa al tempo del dolore intrecciandolo al tempo della fede che si oscura e tace.
Sul Golgota, da mezzogiorno alle tre, tanti guardavano, ma non videro. Tutti guardarono quel sangue e quell’acqua: sangue e acqua di un morente. Pochi scorsero in quel sangue e in quell’acqua un significato, nessuno seppe vedere oltre quel sangue e quell’acqua.
Chi, poi, fu portato oltre, chi, dopo, ebbe in dono un «oltre» l’ottenne a seguito di un amore unico, capace di sostenere dolori insopportabili, amori dispersi, una fede in crisi.
La scena si chiude apparentemente ripiegandosi sul dolore privato di poche donne accanto alla pietra sigillata di un sepolcro appartato, nel silenzio e nell’assenza, ma da lì si dilata di nuovo sul resto di Gerusalemme e sul mondo. Tra gli amori dissolti e in fuga, solo un’eco triste mormorata sulla strada verso Emmaus: «speravamo».
Sarebbe una scena lontana se non ci fosse chi oggi continua con forza ad annunciarla. Sarebbe una storia ingoiata nel chiasso quotidiano che banalizza ogni singola esistenza.
Ma sarebbe o lo è? La domanda della Chiesa e dei santi fa diventare quella scena questa scena: la scena è per me e mi chiede di giocare un ruolo non di comparsa ma di protagonista. Dove sono io? incalza e accende di nuovo la possibilità senza cui anche per noi quella scena sarebbe ingiallita e negletta.