Toscana
Natale a Betlemme
E’ una piccola storia “vera” che abbiamo sentito raccontare qui a Betlemme Era il Marzo 2002, e Padre Bruno Ferreira, un francescano di Gerusalemme, era venuto ad acquistare una statua del Bambino Gesù (60cm), su richiesta di alcuni amici italiani. Ma quella sera Padre Bruno non riuscii a tornare al suo convento: l’esercito israeliano aveva già circondato Betlemme e si preparava ad invadere la città; nessuno poteva uscire o entrare. Iniziò l’assedio della Basilica della Natività, implacabile, terribile nelle sue leggi di guerra, e anche Padre Bruno venne incluso nel numero degli assediati assieme al suo “Gesù Bambino” appena acquistato. Durante quei 39 giorni la graziosa immagine gli tenne compagnia, dolce simbolo di tenerezza in mezzo a tanto odio e a tanta angoscia. Dopo la “liberazione”, venne finalmente portata all’aeroporto di Tel Aviv, ben protetta e pronta per il viaggio verso l’Italia.
Ma all’aeroporto cominciarono i problemi, e non era la prima volta per questo tipo di “Bambini”: lo sappiamo per esperienza, visto che spesso, nei nostri viaggi, essi ci vengono estratti dai bagagli e portati in speciali uffici per accuratissimi controlli; scene di insolita delizia: non si può negare che, tra le mani degli addetti alla sicurezza che attraversano le lunghe sale dell’aeroporto di Tel Aviv, questi “Bambini” suscitano sguardi sorpresi e qualche sorriso.
La statua era destinata alla Parrocchia di S.Antonio di Pisa. Data la sua speciale familiarità con il Bambino Gesù, S. Antonio sarebbe rimasto inorridito al vedersi recapitare un insieme di tali pezzi Gli amici di Padre Bruno riuscirono comunque a “sistemare” abbastanza bene il Bambino, anche se i segni di quella brutta avventura rimangono e lo lasciarono esposto alla devozione della gente, dandogli un valore nuovo e altissimo: “Questa immagine devastata del Bambino Gesù sarà per noi il simbolo delle sofferenze di tutti i bambini del mondo violentati dalla guerra”. Betlemme, 24 dicembre 1952. Vigilia di Natale. Le campane suonano a distesa, ma nel campo dei rifugiati i bambini muoiono di fame, di malattie e di freddo. E’ appena finita la guerra arabo-israeliana, o meglio, solo interrotta. Un papà palestinese sta per seppellire il suo bambino morto di stenti. Un sacerdote svizzero, P. Ernst Schnidrig, vede la scena e ne rimane profondamente scosso. Come è possibile che proprio a Betlemme un bambino muoia di fame e di stenti? Quel sacerdote prende subito in affitto due stanze, le allestisce con 14 lettini e, pieno di speranza, chiama quel luogo “Caritas Baby Hospital”.
Se oggi, dopo esattamente cinquant’anni, quel sacerdote tornasse in vita e venisse a Betlemme, troverebbe un Caritas Baby Hospital, ma ancora tanta miseria e sofferenza: la guerra non è finita e i bambini continuano a morire di violenza; alcuni ne portano i segni nel corpo, come Haya, cinque anni, alla quale i proiettili hanno strappato un occhio, e Fares, nove anni, che ha perduto un braccio sotto le bombe e continua a domandarsi come ciò abbia potuto accadere proprio a lui. E le ferite dell’anima non si contano e non vogliono rimarginarsi: i bambini di Betlemme sanno bene cosa significa il terrore, la paura delle lunghe notti dei bombardamenti, dei fucili puntati su di loro e su mamma e papà
I bambini, questi piccoli esseri umiliati e in balia di chi è forte, sono coloro che più degli altri pagano il prezzo dell’odio che insanguina le nostre strade, qui e in molte parti del mondo.
Ma su queste situazioni si stende spesso una coltre di silenzio!
Betlemme, il cantiere della speranza