Pisa

NASCITURO, QUESTO SCONOSCIUTO

di Caterina Guidi

Nascituro, «concepito», «embrione», «feto»: molti termini tecnici che indicano, con varia specificità quel soggetto – e in un certo senso quel mistero – che ognuno di noi è stato nella vita intrauterina, prima di venire al mondo. Al di là dei nomi che si possono utilizzare, c’è da chiedersi «chi» sia realmente il nuovo individuo che si forma dall’unione di due cellule, non solo dal punto di vista medico, ma anche da quello giuridico-legislativo: è «persona»? è «soggetto giuridico»? ha, per intendersi, i medesimi diritti di chi è già nato? E ancora, come lo si può tutelare legalmente?Queste ed altre questioni al centro della giornata-studio dal titolo «Il nascituro questo sconosciuto: la tutela giuridica a confronto con gli aspetti bioetico-scientifici», organizzata dal comitato «Scienza&vita» di Pisa e Livorno, venerdì 5 dicembre nell’aula magna della Scuola medica a Pisa. Medici, biologi e giuristi (circa trecento gli iscritti all’assise) a confronto su un medesimo tema che presenta molte sfaccettature.Nel dibattito sulla vita capita spesso di avvertire una certa freddezza nel parlare del futuro bambino: una freddezza dettata non sempre dalla necessità di usare un linguaggio scientifico, ma, talvolta, dalla brutta abitudine di trattare l’embrione come oggetto: in realtà l’embrione è un soggetto; anzi, di più: è protagonista, almeno da un punto di vista biologico. Questa la visione della professoressa Daniela Musumeci, docente di fisiologia umana alla facoltà di medicina del nostro ateneo. «L’embrione è attivo orchestratore del suo impianto e del suo destino», sceglie il luogo dove impiantarsi nell’utero materno e inizia con la madre uno scambio e un dialogo che non sono affatto solo emozionali. «Fin dai primi momenti di vita uterina il nuovo essere – ha osservato la professoressa Musumeci – sviluppa i cinque sensi e passa alla madre cellule staminali che ne migliorano lo stato di salute». Secondo Musumeci «la capacità di sentire dolore si sviluppa nel nuovo soggetto dalla 5ª alla 28ª settimana dal concepimento; la parte del sistema nervoso, invece, che trasporta le endorfine (le sostanze che l’organismo produce per attenuare ogni forma di dolore), dalla 27ª settimana in poi». Dalla 5ª alla 27ª settimana vi è quindi la possibilità che l’embrione avverta un dolore puro, non alleviato dalle endorfine. È forse presto per affermare che l’embrione abbia coscienza del dolore, e che ne provi di più di una persona nata e completa, ma la sola prospettiva invita ad una riflessione sul modo di trattare il nascituro. Allargando la visuale ci sono almeno due ambiti su cui dovrebbe esserci più informazione: l’aborto cosiddetto terapeutico e la diagnosi invasiva. La tematica è stata affidata alla dottoressa Lorella Battini, ginecologa in servizio all’Ospedale Santa Chiara a Pisa e membro dell’Accademia delle scienze di New York. La legge 194 consente alle donne in gravidanza di abortire anche oltre i 90 giorni stabiliti, qualora la prosecuzione della gestazione mini gravemente la salute della madre; si parla in questo caso comunemente di aborto terapeutico. «Ma terapeutico per chi? – si è domandata la dottoressa Battini – non per il feto che, sano o malato che sia, viene eliminato. Non per la madre, perché l’aborto in sé non cura e può anzi causare in seguito depressione e sofferenza psicologica di grave entità». Battini si è soffermata anche sulle «tecniche diagnostiche invasive – amniocentesi, biopsia embrionale, prelievo dei villi coriali… tutti quegli esami invasivi utilizzati per effettuare prelievi diretti – pur avendo una buona predittività su certe malattie genetiche – presentano rischi non indifferenti per il nascituro. La biopsia embrionale, che va effettuata prima dell’impianto, ha un rischio abortivo che arriva addirittura al 29%». Ecco allora che, in uno Stato che voglia riconoscere il diritto alla vita del nascituro, occorre investire sulle diagnosi non invasive (bi-test, tri – test ecografia genetica … gli studi stanno facendo passi da gigante in questi anni) e aver ben presente che esse «debbano servire ad inviduare eventuali pericoli per il nascituro per curarli e tranquillizzare la mamma, non certo per “selezionare” chi deve venire alla luce e chi no».La legge 194 fu già a suo tempo il risultato di un ampio dibattito, e i segni sono visibili per il fatto che l’aborto in Italia, almeno sulla carta, non è un atto scontato e automatico: dovrebbe essere il doloroso punto d’arrivo dopo aver vagliato tutte le possibilità e tutti i problemi della donna. Sfortunatamente non è sempre così, tanto che negli anni si è arrivati a parlare dell’aborto come diritto da esercitare, e non come un dramma sociale e personale, pur regolamentato da una legge. Anche gli scenari idilliaci urlati da certi ideologi andrebbero ridimensionati; così suggerisce il dottor Renzo Puccetti, specialista in medicina interna: «negli anni Settanta c’era chi parlava di milioni di aborti clandestini in Italia ogni anno. Una cifra irrealistica. Si è detto che una corretta legiferazione ha portato a una diminuzione progressiva del ricorso all’aborto: anche questo non è vero, perché subito dopo l’approvazione della 194 le donne con esperienza di aborto erano il 7%, oggi sono almeno il 35%. Cosa è accaduto? Semplicemente allargando l’accesso all’aborto, vi si ricorre con maggiore frequenza, come se fosse una cosa tutto sommato «accettabile». Ha parlato della dignità dell’embrione-persona il professor Donato Busnelli.«Nella bioetica americana – ha specificato il professor Francesco Donato Busnelli, docente di diritto civile alla Scuola S. Anna – il primo principio a cui un professionista deve attenersi è l’autonomia del soggetto. A questa è subordinato tutto il resto. Capiamo, dunque come negli Usa i soggetti considerati non autonomi siano parecchi… in Europa invece il codice bioetico parte dalla dignità della persona; il giurista deve porre la dignità umana al primo posto ed usare questa come sostegno a cui appoggiarsi quando il vuoto normativo rende più difficili le scelte». È per questo principio di dignità che in Italia la legge 40 – che riconosce l’embrione come soggetto giuridico – non consente l’eliminazione degli embrioni e vieta la sperimentazione su di essi. Tutto si riconduce, dunque, ad una questione di principi: non a convinzioni dettate dalla fede religiosa o dal sentimento; ma di principi che una comunità ampia di persone (l’Europa) riconosce come tali, e dai quali dovrebbe partire per ogni scelta successiva. Ma il termine dignità è assai più facile da scriversi che non a testimoniarsi.