Toscana

Mps, Quadrio Curzio: «Tornare alle radici»

Le radici saldamente piantate nella Provincia senese, i rami protesi verso l’economia globale. Il Monte dei Paschi di Siena, fondato nel 1472, «banca-territorio» per eccellenza – all’ombra della quale sono cresciute l’economia di questo scampolo di Toscana e innumerevoli iniziative, associazioni, sodalizi della città, Palio compreso -, attraversa una delle stagioni più buie della sua storia pluricentenaria. I vertici societari, con in testa il presidente Giuseppe Mussari (che assommava anche la carica di presidente dell’Associazione bancaria italiana), sono finiti nel mirino della Magistratura per una serie di spericolate operazioni finanziarie – fra cui l’acquisizione di Antonveneta e l’acquisto di derivati «tossici» – tali da far sorgere seri interrogativi sulla stabilità di Mps e il suo futuro, sugli interessi di azionisti e risparmiatori. Attorno a questa vicenda è inoltre emerso un forte scontro politico che s’inserisce nella campagna elettorale in corso in Italia.

Il Sir ne parla con Alberto Quadrio Curzio, economista dell’Università Cattolica, esperto di scenari internazionali, di finanza, d’integrazione europea. Quadrio Curzio ha alle spalle oltre 400 pubblicazioni scientifiche; è direttore della rivista «Economia politica. Journal of Analytical and Institutional economics» nonché vice presidente dell’Accademia dei Lincei.

Il ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, nel corso dell’audizione parlamentare del 29 gennaio, ha affermato che Mps non si può considerare a rischio data la sua solidità patrimoniale; che l’intervento del Governo mediante i «Monti bond» non è un «salvataggio bancario» e non prelude a una nazionalizzazione; che la vigilanza della Banca d’Italia è stata ineccepibile. Lei cosa ne pensa?

«I temi sollevati sono numerosi e complessi. Prescindendo dalle questioni che sono al vaglio della Magistratura, direi che, pur nella grande sofferenza in cui si trova il Monte dei Paschi, non sussistono immediati problemi di solidità. Si tratta di una banca ben radicata nel territorio, nei cui confini dovrà però rientrare proprio per accrescere la stabilità. Mps deve ‘dimagrire’ e tornare nella sua naturale sfera di operatività nazionale, con una particolare preferenza all’area toscana e a quelle regionali italiane. Non si tratta di localismo, perché la professionalità deve sempre prevalere, quanto piuttosto di scegliere la strada appropriata in base alle caratteristiche del Monte dei Paschi. Del resto quasi tutte le banche italiane hanno dimensioni tali da potersi muovere adeguatamente solo in uno scenario nazionale. Solamente Intesa e Unicredit mi pare possano senza difficoltà particolari lavorare su scala europea. Perché occorre essere chiari: quando ci si muove nei mercati globali con strumenti finanziari sofisticati, i rischi finanziari diventano elevatissimi anche perché i competitori e gli interlocutori sono molto potenti».

E sull’intervento del Governo e il ruolo di Bankitalia?

«Va detto che il prestito è a titolo oneroso e dovrà essere rimborsato da Mps; concordo perciò con il ministro che non si tratta di un salvataggio. Certo i vertici dell’istituto dovranno attrezzarsi per restituire il prestito e questo comporterà sacrifici e quel riposizionamento di cui parlavo. Ricordiamoci peraltro che, a partire dalla crisi tuttora in atto, i governi nazionali hanno dovuto compiere interventi ben più significativi in altri Paesi europei: basti pensare al Regno Unito, alla Germania, a Spagna, Paesi Bassi, Irlanda… Sul ruolo esercitato dalla Banca d’Italia direi che essa svolge una vigilanza tra le più penetranti e continuative in tutta Europa e lo dimostra il fatto che nell’arco di questa lunga crisi ci sono state poche situazioni problematiche nel nostro Paese rispetto all’estero».

Dunque il sistema bancario tricolore ha le spalle sufficientemente solide?

«Le nostre banche sono, come dicevo, prevalentemente legate al territorio, all’economia reale. Questo vale tanto per le banche di credito cooperativo che per le popolari, fino ai più grandi istituti. È un sistema che ha retto bene, nonostante la recessione. Semmai va ricordato come gli istituti italiani sono stati fortemente penalizzati dai criteri di Basilea, i quali prevedono requisiti patrimoniali elevati rispetto al nostro standard di banche commerciali; per rispettare tali requisiti, le banche hanno operato un calo nell’erogazione di denaro alle famiglie e alle imprese. Del resto la crisi ha portato a una contrazione della domanda di credito, mentre sono cresciute le sofferenze. Insomma le banche, prese tra due fuochi, hanno cercato di tutelare i propri risparmiatori e gli azionisti, senza far mancare i capitali necessari al sistema economico. Ma è un equilibrio difficile da raggiungere e sempre precario. Per uscire da questo impasse occorrono ora interventi di portata nazionale ed europea intesi a rilanciare la crescita economica e l’occupazione: e le banche potranno allora fare appieno la loro parte».

Il caso Mps rimanda – seppur indirettamente – alla sorveglianza bancaria unica europea, comunemente chiamata «unione bancaria», della quale si sta trattando in questo periodo nelle sedi Ue. È una giusta esigenza?

«Ritengo che la vigilanza sul sistema bancario debba essere di livello multiplo o a geografia variabile. Sulle cosiddette ‘banche sistemiche’, che operano su scala continentale, occorre una vigilanza europea. Sulle banche locali o nazionali è invece necessario e più efficace il controllo effettuato dalle banche centrali nazionali, come la Banca d’Italia».

Lei ha parlato di azioni per rilanciare la crescita. Anche di queste si discute, e da tempo, in Europa. Così come si tratta, in sede di Consiglio europeo, dove siedono i capi di Stato e di governo dei Ventisette, di unione economica e monetaria. Qual è la sua posizione su questi argomenti?

«È importante marciare, e con costanza, verso una maggiore governance economica e, dunque, verso una unione economica e monetaria. Purtroppo, però, assistiamo su questo fronte a slanci in avanti e a bruschi arresti. Invece le politiche europee richiedono progressione. La crisi ha imposto scelte rapide all’Ue, che infine sono state assunte; ma se l’Europa si fosse attrezzata per tempo, si sarebbe potuto rispondere meglio alla crisi. Guardando al futuro, ci sono ulteriori passi da compiere e il primo, a mio avviso, è la creazione di un fondo finanziario Ue che possa emettere titoli del debito pubblico europeo».

Gli Eurobond, dunque? Ma per fare cosa?

«Esatto, gli Eurobond. Da una parte, per sostituire il mercato finanziario nella proprietà dei titoli di Stato dei singoli Paesi Ue, così da sottrarli alle pressioni speculative, come avvenuto ad esempio in Grecia. Fra l’altro gli Eurobond avrebbero più facile accesso al mercato finanziario mondiale rispetto ai titoli di ciascun Paese. Dall’altra parte, gli Eurobond consentirebbero di raccogliere fondi da destinare a infrastrutture ecocompatibili che a loro volta creerebbero sviluppo e lavoro. È sufficiente pensare che la Commissione europea ha prospettato la necessità d’investimenti per circa 2.500 miliardi da qui al 2030 nel campo dei trasporti, delle telecomunicazioni e delle energie rinnovabili: ma come recuperare i fondi per gli investimenti? Ebbene, la crescita, oggi più che mai urgente, si può sostenere con strumenti finanziari come gli Eurobond, ma occorre attrezzarsi per tempo».